Da imperturbabile modello classico, a eroe romantico, titano solitario, veggente dei suoni. Il saggio di Benedetta Saglietti, “Beethoven, ritratti e immagini”, rivela il celebre compositore più di tanti discorsi. Decine e decine d’interpretazioni diverse dello stesso soggetto: oli su tela, disegni, incisioni, litografie, busti, calchi, sculture, eseguiti durante la vita del musicista (1770-1827), ordinati in sequenza cronologica, a ricostruire in maniera rigorosa le occasioni e il tessuto dei rapporti sociali in cui nacquero. Beethoven non è semplicemente osservato: lo spiano, lo studiano, lo temono e lo ammirano. Il fascino magnetico e la forza rappresentativa della sua musica si proiettano nella ritrattistica, la trasformano producendo una sorta di “critica fisiognomica”.



L’iconografia si fa recettiva di leggende, aneddoti, impressioni biografiche ed estetiche. L’effigie riflette l’opera. Costante la scarsa propensione del maestro a vedersi raffigurato, un misto di riservatezza, ritrosia, gelosia. Nella silhouette di un Beethoven sedicenne si notano camicia a sbuffo, codino, collo incassato, mento volitivo. Verso i trent’anni diventa Apollo. Viso regolare eppur caparbio, labbra rosse e sottili, riccioli vezzosi sulla fronte, abbigliamento curato, folte basette, corpo ben piantato, in lieve rotazione. Scruta lontano, la mano destra profeticamente sospesa in aria, come al termine d’un solenne discorso. La professione è relegata in secondo piano: una lira appoggiata a terra. La scena è immersa nella natura, un tempietto sullo sfondo.



Dieci anni dopo qualcosa è cambiato. L’attenzione si è concentrata sul volto. Eliminato ogni elemento estraneo. Occhi che trafiggono. Capelli arruffati, sopracciglia severe, la fronte ancora più spaziosa, una certa melanconia. Ora è un elegante Prometeo che si ribella al Fato. Verso i cinquant’anni è l’eversivo che ben conosciamo. Il Gran Mogol dallo spirito selvaggio. Scomparsa ogni socievolezza settecentesca. Genio e sregolatezza. Impazienza. Un disordine intenzionale, esibito. Sguardo fisso nelle regioni celesti dell’ispirazione, dove i comuni mortali non possono vedere. La faccia ridotta a una maschera di volontà. Lineamenti contratti, una linea orizzontale al posto della bocca.



Il tardo Beethoven si fa tridimensionale, mitico, bloccato in una pacata grandezza, in ascolto di voci che solo lui riesce a percepire. Il suo studio è un’officina scombinata e sulfurea. Bronzi e sculture ne amplificano possanza, regalità, fierezza. In un disegno la mano destra armata di matita è in attesa dell’ispirazione divina, la sinistra stringe convulsamente un foglio pentagrammato, quasi a spremerne una stilla visionaria. Qualche rarissima testimonianza grafica (il disegno di Eduard Klosson del 1823, purtroppo escluso dal libro della Saglietti) ci tramanda una figura dai tratti ironici, vivace, curiosa, insolitamente socievole.

È il Beethoven intento alla lettura dei giornali del mattino, accanito fumatore di pipa, innamorato di vini e vestiti signorili (panciotti, tube, redingote). L’uomo rumoroso e lieto che gira per le strade viennesi a mostrare gli stivali appena comprati e a marcare il territorio; che s’informa delle trappole per topi e del “gabinetto inodore mobile” da tenere nella sua stanza; dell’ultima macchina per fare il caffè e del migliore sapone da barba in commercio. Al leone non potevano tagliare la criniera, accarezzare un bimbo che gioca, piangere per lo stufato bruciato.

Quei disegni circolano sotterranei, spesso anonimi, opera di dilettanti. Introvabili, espunti, considerati con fastidiosa sufficienza. Invece sono testimonianze fondamentali. Aggiungono tratti umani, simpatici, famigliari al “semidio” Beethoven. Lo avvicinano a noi. Il mondo tende ad allontanarlo, lo rende “sovraumano”. Faccenda per iniziati. Però la sua forza sta anche nell’esserci amico, fraterno compagno di viaggio (in cima alla cordata, certo). La verità di un’opera risiede nell’opera stessa, non nel messaggio, nel contesto, nei vari sociologismi. Un quadro e una partitura viaggiano con le loro gambe. Eccedono ogni calcolo e previsione. Che siano opera di dilettanti o di geni è lo stesso. Le strade del destino si radicano nell’imprevisto. La storia è fatta anche di esperimenti falliti, di errori finiti in gloria, istantanee scattate per sbaglio…