Approfittando di un suo solo show a Catania – presso il club La Chiave, da cui passa ed è passato il meglio del rock locale, nazionale e, a volte, internazionale – raggiungo Andrea Appino (voce, chitarra e autore principale dei folk-punk-rockers Zen Circus) per parlare delle ristampe dei primi 4 – ormai introvabili – album della sua band, protagonista di un’escalation che l’ha posta, negli ultimi anni, all’attenzione d’un pubblico attento, affezionato e – finalmente – più numeroso.
È solo il pretesto per toccare argomenti ben più pregnanti, che sveleranno la grande umanità di un musicista contagiosamente appassionato.
Prima, però, intendo ringraziare – oltre al diretto interessato – Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, senza il quale questa intervista non sarebbe stata possibile.
Andrea m’aspetta seduto ai tavoli d’una gelateria in Piazza Vincenzo Bellini, a Catania: di fronte a lui, lo storico – e bellissimo – Teatro Massimo, che porta il nome del famoso musicista etneo. Prima, mi aveva addirittura telefonato per essere il più preciso e puntuale possibile, nei miei confronti e verso quelli di chi – più tardi – lo aspetta per il soundcheck: un comportamento che dice molto, come avrò il piacere di scoprire, della persona che mi regalerà un pomeriggio e una serata – condivisa col pubblico, stipato all’inverosimile, de La Chiave – da conservare.
Appino sta mangiando un gelato, una sana e necessaria concessione: nel giro di 3 giorni, si è esibito a Messina, Ragusa e Torino, tornando per suonare qui stasera e domani a Palermo, sottolineando – nella notte, dal palco de La Chiave – che “Sì, si può fare!”. Dopo avermi consigliato di metter via la mia vecchia copia del loro – introvabile – debutto, perché potrebbe – dice – rubarmela da un momento all’altro (dato che la prima edizione di Visited by the ghost of Blind Willie “Lemon Juice” Hamington IV non ce l’ha più nemmeno lui, che deve accontentarsi delle ristampe di cui tratteremo!), parliamo un po’ di noi (coetanei), ci confrontiamo, ridiamo di gusto e mi offre pure una birra! Ecco il tipico momento in cui ti vengono in mente quelle parole lì: “La grandezza d’un vero artista è proporzionale alla sua umiltà”. Non ricordo chi l’ha detto ma, finora, dopo parecchie interviste e incontri fortunati come questo, non me la sento di smentirla…
Siete sempre in giro, anche da prima della maggior esposizione dell’ultimo album Andate tutti affanculo. Se gli Zen Circus stanno fermi, ecco che Andrea s’esibisce da solo… Sembra il Never Ending Tour di Appino! È una questione vocazionale?
Soprattutto prima della maggior esposizione! (risate, nda) Ho appena festeggiato la 170° data in un anno e mezzo, l’altro ieri a Modica (RG). Non saprei far altro, primo: quindi sì, è come una vocazione. Secondo, sia io che Ufo (bassista degli Zen Circus, nda) abbiamo sempre lavorato. Fino al 2008, ho fatto anche i lavori più umili. Automaticamente, quando la musica diventa un lavoro, mi sembra naturale buttarcisi a capofitto: se mi alzo alle 7 del mattino per far qualcosa che non mi piace perché non dovrei farlo per la musica, che è la mia vita?! Quindi, più che vocazionale, è da lavoratori indefessi (risate, nda)!
Non ti capita, quando torni a casa, di patire una sorta di “intossicazione da strada”? Una specie disaudade brasiliana per la vita on the road: ti ritrovi davanti la porta di casa, con la chitarra, la borsa e…
…E ora, che faccio?! Chiaro, però sta nel gioco. Se sei un minimo “trombato” – come si dice a Pisa – per questa cosa qui, ovvero se hai un carattere – che magari poi ti si forma, non so, ma io ce l’ho sempre avuto – aperto a questo stile di vita, allora non è poi così pesante. L’unica cosa che mi pesa riguarda le relazioni locali: ho perso delle amicizie storiche perché, quelle pochissime volte che ci becchiamo, i discorsi sono vaghi, dato che ho perso il filo. Questo mi dispiace, il resto è la cosa più naturale del mondo. Anzi, dato che io a casa ci son sempre stato male perché mi riavvicina alla “malattia”, alla “morte” intesa come routine costante, l’unica condizione naturale che mi rimane per reagire è – appunto – stare in giro a suonare. Addirittura, ora che – come Zen Circus – ci fermiamo, perché siamo in un surplus d’attività, andremo in tour con Nada: ci mancherebbe altro che ti fai un’estate a casa! Quindi, 25 date con lei, poi a settembre/ottobre proveremo il tour di supporto al nuovo album degli Zen, che uscirà nello stesso periodo. E a novembre si riparte, credo con altre 180 date…
Una delle qualità che ho sempre ravvisato in te come songwriter, che ti viene riconosciuta da molti, è piuttosto rara: tu canti come se cantassi per gli altri, che si riconoscono. C’è la provincia, l’Italia del malaffare, personaggi che potrebbero venire da Agrigento, piuttosto che da Pisa oppure da Mestre: è uguale.
Sì, sì. È una cosa che mi han detto tantissimi. Chiaramente, l’idea non era quella. L’intenzione dietro Andate tutti affanculo – ad esempio – era di far cantare proprio quei personaggi lì, però – in realtà – c’è di mezzo tutta gente che conosco e un giorno ci farò un libro: ci sono nomi e cognomi, non c’è niente d’inventato, tranne le situazioni generalizzanti. Però, l’istinto rimane quello di cantare per me: come se io tirassi fuori roba mia in cui si mescolano tutti questi personaggi. Sono l’ultimo che dovrebbe dirlo ma, forse, data l’urgenza espressiva con cui sento il bisogno di urlare quelle cose – che sono mie e sento mie – è probabile che – in un Paese pieno di quei tipi di personaggi e di vita di provincia – è chiaro che poi ci si riconosca. Non è volutamente generazionale, è proprio capitato perché – probabilmente – ho vissuto le stesse cose che vive chiunque, ma ho deciso di cantarle senza filtri, con le parolacce, con le volgarità che – in un Paese in questo momento volgarissimo, sotto parecchi aspetti – non ho ritenuto di dover lasciare fuori o cantare diversamente. In più, anche per un’esigenza di rottura rispetto a quello che sono stati gli anni Novanta italiani in musica: perché, in quel periodo lì, quando c’era il Consorzio Produttori Indipendenti, la Mescal – tutte realtà che conosco e a cui voglio un bene dell’anima – io ero ventenne, quindi dovevo rompere con qualcosa, crescendo. Per me il rock è rottura: fra 10 anni, spero che qualcuno voglia rompere con gli Zen Circus! Mi riferivo a quel tipo di lirismo, di ricerca letteraria nei Novanta: tutto molto bello, basato su dei riferimenti letterari che – oltretutto – io adoro. Ma in Italia mancava un atteggiamento diverso e, coi gruppi de La Tempesta (etichetta indipendente che fa capo ai Tre Allegri ragazzi Morti, responsabile della “rock renaissance” italiana degli ultimi anni, nda), sono contentissimo d’esserci arrivati tutti insieme.
Ieri, intervistando i Verdena (prossimamente su queste pagine, ndr), parlavamo proprio di questo: c’è stato un momento buio per il rock indipendente italiano, durato circa 3/4 anni, nel periodo compreso tra il ridimensionamento della Mescal e l’esplosione de La Tempesta. Va riconosciuto ai Tre Allegri Ragazzi Morti di aver messo in luce molte realtà meritevoli…
È vero, quello fu davvero un periodo nerissimo… Se glielo chiedi, e lo sanno benissimo Enrico e Davide (Molteni, bassista, e Toffolo, chitarrista/cantante dei T.A.R.M. nda), ti confermeranno che si è trattato anche di sinergie che si sono incontrate – a volte quasi casualmente – perché tutte hanno fatto lo stesso percorso. I T.A.R.M. anche da prima, con i loro trascorsi su major: La Tempesta è ricamata, appunto, sulla loro pelle, in base a quelle esperienze lì. Ci siamo arrivati tutti quasi automaticamente. Prendi i One Dimensional Man, con cui abbiamo condiviso i palchi per 10 anni: hanno fatto un progetto come Il Teatro degli Orrori e ci siamo ritrovati tutti, con linguaggi diversi, a parlare della stessa roba. È un esempio di rottura. L’idea degli Zen lo è ancora di più, perché vuol partire dal basso: come se cantasse il ragazzetto che sta lì, beve la birra, prende un po’ in giro gli altri… L’idea è di non caricarlo troppo di morale, possibilmente, e di cantarlo così com’è. La verità – anche lo schifo – delle figure allegoriche che utilizzo, creano un po’ di imbarazzo in chi – magari – si reputa più intellettuale. L’idea era proprio di allontanarsi da quel tipo d’atteggiamento.
(Continua…)