La rete da sabato sta rendendo omaggio a una delle voci più influenti e carismatiche della cultura americana. Poeta e cantante, Gil Scott Heron è stato per 40 anni un cantore della vita del ghetto e della metropoli americana, delle battaglie civili, della critica alla politica americana (in particolare di Nixon e Reagan), della storia della cultura nera e dei suoi esponenti. È morto a 62 anni, a New York City, città che amava più di ogni altra e a cui ha dedicato una delle sue composizioni più riuscite. Laureato in letteratura, dotato di una voce di “mogano e lacrime”, ha scritto testi ricchi di umanità varia, di humor, di sentimenti personali, ricchi di riferimenti letterari e diretti. Ironia della sorte, sta per uscire il suo ultimo libro: “The last holiday”.
Esordisce nel 1970 con un romanzo (“The Volture”) e una canzone (in stile drum & bass, al basso Ron Carter, ex Miles Davis) che diventa subito una pietra miliare: “Revolution will not be televised”. Uno slogan, un manifesto del ghetto, un’esplosione di energia che per 3′ non dà tregua, incalza, trascina, concentrato di black power e Coltrane, orgogliosa rivendicazione, che scaturisce direttamente dall’anima della gente del ghetto. Colpisce per la cifra stilistica della scrittura: rabbiosa, ma senza espressioni scurrili, anzi colta. La dizione è veloce e sincopata: è il prototipo del rap e Gil Scott Heron diventa il “Goodfather del rap”. Titolo che lui ha sempre rifiutato, ma innegabile resta il suo contributo alla nascita di uno stile musica che evolverà nel rap. Un progenitore di sicuro.
Citata, ripresa, fonte anche oggi di ispirazione per decine di musicisti, non è mai stata eseguita dal vivo dal suo autore: l’aveva creata e messa a disposizione, altri dovevano farne uso. Oggi è la rete e non la televisione che lo celebra nei quattro angoli del mondo. Forse Jamiroquai, che contro-dedicò una “Revolution will be televised”, dovrebbe un po’ ricredersi. Esponente dello spoken word (lettura pubblica di poesie e di improvvisazione di versi) legata sempre ai quartieri popolari (come Pinero e altri), amava parlare molto durante le sue esibizioni, nelle quali era sempre pronto alla battuta e al sorriso, oltre che alla denuncia.
Molto prolifico (16 album da studio, 4 libri), negli anni ’70 con il suo sodale Brian Jackson, sfornò una serie di dischi di alto livello, una miscela di funky, jazz, soul, fonte di ispirazione per il futuro movimento Hip Hop. Scisse anche una hit, “The Bottle”, con cui chiuderà nei restanti tre decenni i suoi concerti, travolgente ritmo sulla piaga dell’alcolismo. Nelle canzoni del periodo i temi diventarono quelli della lotta per l’uguaglianza, in America e in Africa, le grandi figure della cultura popolare nera, la critica a Nixon, storie di gente comune, di vita personale, della paura del nucleare. Molte sono quelle ancora significative: “Winter in America”, “Pieces of a man”, “Almost we lost Detroit”, “It’s your world”, “Lady Day e John Coltrane”, “The Needle’s eye”. L’inizio degli anni ’80 lo vide con una nuova band, produsse 4 album, ancora di ottima fattura, più marcatamente jazz.
I temi furono più incentrati sulla vita personale, la critica al reaganismo (la sagace “B-Movie”), al problema della piaga dell’eroina (“Angel Dust”, in cui cadrà anche lui nel 2003), spaccati di vita metropolitana (“Blue Collar”, “3 miles down”), la conoscenza della cultura nera (la indagativa “Is that Jazz?”). Dal 1893 al 1994 non incise più in studio, continuò a suonare in giro per il mondo, spalleggiato da una ottima band e dal suo inseparabile piano Fender. La voce divenne ancora più ammaliante. La testimonianza migliore è sul live “Tales of”. Nel ’94 pubblica “Spirits”, primo album con arrangiamenti Hip-Hop ed electro. Poi più nulla. Sparì. Improvvisamente nel 2009, dopo anche guai con la giustizia e un paio di anni in galera, con un ingaggio regolare al SOB di New York ogni martedì’ sera, riappare.
Nel 2010 esce: “I’m new here” (il gusto per l’ironia…). Album breve, essenziale, negroide. Magnifico. Sempre con ritmiche hip-hop e trip-hop (il legame con le nuove generazioni mai interrotto), fuse con una voce cavernosa e calda. L’omaggio alla cultura nera è la folgorante rilettura di “Me and the Devil “, canzone fortemente autobiografica … ma di Robert Johnson, scritta 80 anni prima! Perché il blues è sempre lì, non passa mai. Solo grande cultura, intelligenza, sensibilità permettono di trasmettere e unire le radici con la modernità, di collegare un leggendario bluesman della polverosa campagna americana del secolo passato a un giovane DJ del 2010 che usa solo campionatori e mixer digitali. A ben vedere, questa capacità è una costante dell’opera di Gil Scott Heron (non usava neppure le mail, solo lettere scritte a mano), uno dei lasciti più interessanti.
L’oscura “Where did the night go”, l’ultimo atto d’amore alla sua città “New York is killing me”, le sentite “I’ll take care of you” e “On coming from a broken home”, la rendono la sua opera più autobiografica e personale. Superfluo dire che nel tour che ne segue queste canzoni non verranno mai eseguite. Sempre impegnato in prima persona nelle lotte per l’emancipazione, è stato fortemente critico nei confronti delle tendenze alla conflittualità interna alla comunità nera, alla superficialità degli atteggiamenti, incitando incessantemente i fratelli neri (inclusi quelli che lo celebravano), a capire i meccanismi della società in cui vivono.
E’ facile scrivere dei versi, è difficile comprendere e trasmettere un messaggio, un concetto profondo. Questo è il ruolo dell’artista, dell’intellettuale di strada (“Message to messangers”). Per questa sua severità e coerenza è sempre stato molto rispettato dai messaggeri, citato come maestro (“Minister of Information” uno sei suoi nomignoli) di cui tenere bene a mente la lezione; che non a caso sono stati tra i primi a salutarlo sui loro siti e blog (tra cui Enimen, Chuck D, Usher, Snoop Dogg). Come migliaia di gente sui vari FB, Twitter, Youtube. Il tempo dirà quanto resterà di questo insegnamento. Il mio ricordo è il suo ultimo concerto italiano, a Vigevano, nel Luglio scorso. Sorridente, , umile, seduto al suo Fender, con tutta la sua classe, che trasmisse per un’ora e mezza un grande amore per la vita e per la musica. Come tanti altri, lo saluto con le parole con cui ci lasciò alla fine della serata: “Peace go with you, brotha”.
Discografia consigliata: “Peaces of Man”, “Winter in America”, “It’s your world”, “Moving Target”, “I’m new here”.
(Stefano Baraga)