Al San Carlo di Napoli è andata in scena quella che può a buon diritto essere considerata la prima esecuzione integrale in tempi di moderni di una delle opere più importanti e meno rappresentate di Verdi, Les Vêpres Siciliennes. Purtroppo, durante la prima parte dello spettacolo (che include tanto il primo quanto il secondo atto del lungo “grand opéra” con tre balletti), c’erano diverse file vuote. Probabilmente ciò è avvenuto in quanto le tessere di abbonamento indicavano le consuete 20,30 come orario di inizio (e non le 19), ma forse soprattutto perché la squadra di calcio della città stava giocando un’importante partita (l’esito positivo ha provocato festeggiamenti per tutta la notte). E così il teatro si è riempito all’inizio della seconda parte.
Perché si è trattato di prima esecuzione mondiale in tempi moderni? E’ invalsa la prassi di mettere in scena l’opera in versione ritmica (peraltro piuttosto mediocre) in italiano con il titolo I Vespri Siciliani (nella seconda metà dell’Ottocento, pure nelle esecuzioni in Italia l’azione veniva spostata in Portogallo ed il lavoro veniva intitolato Giovanna dè Guzman), eliminando il balletto “le quattro stagioni” del terzo atto e operando altri tagli. Anche al Metropolitan di New York (dove viene rappresentato il balletto del terzo atto), l’opera viene data in italiano. Non si può considerare “autentica” la versione integrale proposta a Roma nel 1997; includeva tutti i cinque atti, per una durata complessiva di circa quattro ore e mezzo, ma l’azione veniva spostata dalla Palermo del 1282 (seguendo una vicenda tra storia e leggenda immortalata da Michele Amari) a metà Ottocento e le veniva data una forte patina risorgimentale.
Con esiti quanto mai distanti dal libretto (peraltro scritto per un’opera Il Duca d’Alba, concepita per Donizetti, ma che il compositore non riuscì mai a completare). Ad esempio, il personaggio negativo, al centro di tutti i complotti e ideatore della strage finale, Giovanni da Procida, veniva presentato, nell’edizione romana del 1997, come una sorta di mazziniano (ove non come Mazzini in persona).
Sulla genesi dell’opera, e sui travisamenti in chiave risorgimentale, ho scritto altrove. Basti pensare che Les Vêpres Siciliennes venne commissionata dal Teatro Imperiale dell’Opera ai tempi di Napoleone III (non certo né risorgimentale nè mazziniano) e che alla prima rappresentazione nel giugno 1855 il successo fu tale che si ebbero ben 62 repliche. L’opera, nelle sue varie fogge, era spesso in scena sino al 1870 o giù di lì, ma sparì per circa un secolo dai cartelloni specialmente per lo sforzo produttivo che comporta. E’ lavoro, però, di grande importanza perché in esso ci sono tutti gli elementi delle opere future di Verdi.
La complessa vicenda (chiaramente situata in un Medio Evo con tracce ancora bizantine) è imperniata, più che sulla virtuale lotta di indipendenza dei siciliani contro i francesi (per darsi agli aragonesi) su un tormentato rapporto tra padre e figlio in un contesto di conflitti e violenze.
Le scene (di Federico Tiezzi), i costume (di Franca Squarciapino) situano chiaramente la vicenda in una Palermo medioevale densa di ricordi bizantini (grande l’idea di svolgere l’ultima scena all’interno del Duomo di Monreale). Non ci sono concessioni risorgimentali e nella regia di Nicolas Joël, Jean Procida è il vero malvagio della situazione. Le scene sono costruite su pochi elementi mobili e grandi distese marine.
Vengono da un allestimento (in italiano e incompleto) del Teatro Massimo di Palermo e funzionano a perfezione; bellissimo il gioco di luci. Elegante il balletto.
Gianlugi Gelmetti è in linea con la concezione al tempo stesso grandiosa (grandi movimenti di massa, danze) e intima (il rapporto tra padre e figlio) dell’allestimento. Gelmetti dirige senza spartito; di gran livello la prova dell’orchestra del San Carlo, specialmente degli ottoni e dei fiati, molto migliorati negli ultimi anni.
Sotto il profilo vocale Les Vêpres Siciliennes è irto di trappole, specialmente per il tenore – tanto più che, dopo la morte di Alfredo Kraus, non credo ci siano “tenori di grazia” con la dizione nasale e il registro molto acuto. Gregery Kunde lo era una ventina circa di anni fa quando impersonava Arnold nel rossiniano “Guillaume Tell. Per alcuni anni ha avuto serie difficoltà, ora superate. Ma il timbro si è scurito ed è un vigoroso tenore “lirico spinto”. Il meglio che passa il convento in questi anni. Il 15 maggio ha avuto ovazioni dopo la grande aria O jour de peine et de souffrance.
I ruoli del baritono (Dario Solari) e del basso (Orlin Anastassov) sono lunghi e duri, ma non presentano particolari difficoltà. Il principale personaggio femminile è stato affidato ad Alexandrina Pendatchanska, buona emissione e buona coloratura, ma un volume troppo piccolo per le grandi dimensioni del San Carlo. Di buon livelli i caratteristi minori e il coro (la cui dizione francese era però incomprensibile). Dopo cinque ore in teatro, ovazioni per Kunde Anastassov e Gelmetti. Applausi per gli altri.