Riprendiamo la nostra chiacchierata con un disponibilissimo Andrea Appino (frontman degli Zen Circus), raggiunto a Catania – in occasione di un suo show da solista presso il locale “La Chiave”, da anni vetrina per la musica dal vivo – col pretesto di parlare delle ristampe dei primi quattro album della sua band, ma con un discorso che subito – con grande umanità – andrà a toccare argomenti più densi e attuali. Ecco la seconda parte del servizio, a cura di Giuseppe Ciotta. Per leggere la prima parte clicca qui
Raccontaci del prossimo disco degli Zen Circus…
Il disco nuovo è simile al precedente, ma ne sono molto più felice perché non c’è più la totale volgarità, il “vomito” emotivo e basta. C’è la capacità di descrivere esattamente le stesse cose, ma – secondo me – stavolta in maniera, per noi, perfetta. Non so, vedremo come andrà…
Direte le stesse cose, ma più “tra le righe”?
Forse più “fuori dalle righe”, volendo! Abbiamo messo più a fuoco quello che volevamo: considera che Andate tutti affanculo è come se fosse il primo disco (in effetti, il 1° della band interamente in italiano, nda) e questo sarà un po’ il secondo, più focalizzato. Noi ne siamo con-ten-ti-ssi-mi! Tutti sono esaltati, con un sacco di aspettative… Per una volta, abbiamo fatto tutto con più tranquillità.
E – in studio – è importante non lavorare con un occhio al mixer e uno all’orologio (leggasi alle tasche), cioè con l’ansia da prestazione…
Abbiamo proprio fatto tutto come volevamo noi, più rilassati. L’album precedente rimarrà, ne sono certo, come quello più “urgente” nella discografia del gruppo. Però, su questo, ci guardiamo e ci diciamo soddisfatti: “Sì, questi siamo noi!”. Mentre – per Andate tutti affanculo – finché non fu uscito e metabolizzato da tutti, eravamo molto più tesi.
E l’e.p. di cover previsto per maggio?
Era previsto per maggio! (risate, nda) Giustamente, ci hanno fatto notare che avevamo in ballo troppe cose: le ristampe, i lavori per il nuovo album… Quindi, ci fermiamo e lo faremo uscire per Natale, mentre saremo in tour. Avevamo fatto un calcolo sbagliato e affrettato. Però, insomma… Negli ultimi tempi abbiamo fatto uscire troppi dischi! (risate, nda)
Introducendo l’argomento ristampe: ci descrivi, brevemente, ciascuno di questi album? Da un punto di vista musicale e da un punto di vista umano…
Ah (sospira di goduria, nda)! Fondamentalmente, quando mi sono state recapitate le ristampe, avevo i lucciconi agli occhi, perché – dopo 10 anni – di tutti quegli anni lì, se non 40.000, sulle spalle te ne senti 40! Vederli tutti insieme – quei cd – a prescindere dalla questione qualitativa/musicale, da un punto di vista umano mi emoziona tanto: lì c’è la mia vita. Ho talmente messo al primo posto la musica che ognuno di quei dischi era – finché non è uscito – il mio pensiero fondamentale, negli anni che lo hanno preceduto. Praticamente, è come le storie d’amore: come vedere quattro fidanzate storiche con cui sei stato benissimo, ma è finita, ci stai ancora male, eppure son tutte lì! Ci impazzisci, una roba proprio da lacrime! Più di tutti, io sono legato a due dischi in particolare: Visited by the Ghost… e Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo (3° album, nda). Meno a Doctor Seduction (il 2°, nda) e, incredibilmente, meno a Villa Inferno (4° disco, con cui i ritardatari – e gli “snobboni” – finalmente si accorsero di loro, nda).
Perché il primo album è sempre il primo: tra l’altro, era il periodo in cui imperversava il post-rock in Italia, esattamente tutto il contrario di ciò che rappresenta quel disco! Noi suonavamo per strada, venivamo presi a pesci in faccia – ma anche giustamente! – eravamo in una situazione umana parecchio devastante – in quel periodo – fatta di storie familiari, di casini, di mancanza di soldi, di qualsiasi cosa! Quel primo disco lì e i relativi tour basterebbero da soli a basarci sopra un intero libro: quell’album era nato con Teschio (il primo batterista, nda) – che era anche il mio migliore amico – quindi ci sono legatissimo, perché comunque era nato tutto da me e lui. Certo, ora gli Zen siamo noi e va benissimo così, però lì fu proprio come una storia d’amore finita, nel senso che la propulsione con cui va ancora avanti tutto ciò io – personalmente – ce l’ho da quel periodo lì: come una bella pedata nel didietro, che continua ancora a spingerci avanti! Il disco fu fatto completamente a caso (inizia a ridere contagiosamente, mentre il racconto prosegue, nda): per pagare le registrazioni abbiamo dovuto letteralmente costruire lo studio! Abbiamo tirato su le mura, addirittura!
Più do it yourself (slogan post-punk, a indicare la totale autogestione di quei gruppi eticamente – se non stilisticamente – affini e che nei Fugazi di Washington D.C. ebbe la sua più alta espressione, nda) di questo, non esiste!
Sì: carpentieri dello studio! Prima l’abbiamo costruito, poi ci siamo andati a registrare e – per pagare le registrazioni, perché il lavoro non ne copriva tutte le spese – abbiamo pure dovuto vendere degli strumenti… Se parliamo di punk, è questo. Sul quel periodo lì, son sicuro, un giorno un libro ce lo scriverò davvero: ma proprio su quei giorni, non sugli Zen.
“Doctor Seduction”…
Se ne andò via Teschio e arrivò Karim (attuale batterista, nda), ottenemmo il primo contratto e facemmo questo disco pop, proprio perché lo volevamo fare. L’etichetta stessa ci aveva dato i soldi per realizzarlo e per noi era una cosa pazzesca…
Per l’ennesima volta, dopo aver fatto largo educatamente a una signora col passeggino, scrocchiamo l’accendino al cameriere, che – alla fine – ce lo lascia lì: che – forse – si sia accorto che abbiamo praticamente chiesto da accendere a tutti gli avventori, seduti ai tavoli della gelateria, nel corso dell’intervista?!
Tornando a Doctor Seduction: gli voglio un bene dell’anima ma – parlo a titolo personale – secondo me è quello che si fa più fatica ad ascoltare, perché la coralità con Karim sarebbe arrivata dopo e – forse – volevamo fare una cosa un po’ forzata verso il pop puro che, probabilmente, non ci competeva troppo, visto che venivamo da Visited by the ghost…
Secondo me, quel disco “suona”…
Sì, sì, suona! Fu registrato su bobine a nastro e fu ugualmente una figata: anche lì ci sarebbe da fare un libro!
Anche il successivo… Nello Scarpellini… ha una grana sonora personale, particolare…
Esatto e quel disco è l’altro mio grande amore, nella nostra discografia. Fino a Villa Inferno abbiamo utilizzato metodi di registrazione squisitamente analogici, da lì in poi no. Purtroppo non fu compreso da nessuno, quando uscì ci han “sfregiato” tutti. Fu registrato a cavallo fra il capodanno 2004-2005, c’è una chitarra ripresa – addirittura – mentre scoccava la mezzanotte: eravamo, infatti, in studio! C’era proprio presa la fissa: “Ok, entriamo in sala e usiamo solo la registrazione a nastro, tutto in presa diretta – in alcuni pezzi anche la voce – e poi lo mixiamo”. Infatti, se senti, non è un mixaggio – diciamo – ortodosso…
È tutto “fuori”, con le batterie aperte, come se la band stesse suonando nella tua stanza…
E non è masterizzato (usuale procedimento tecnico/discografico, ad ottimizzare la resa sonora del disco su qualsiasi supporto, dal più scarso – come l’autoradio del sottoscritto che, a tale proposito, è un test spietato – al più hi-fi, nda)! È puro, quell’album, ma – per molti – suona malissimo! Io lo adoro, perché lì ci sono i primi pezzi in italiano, cioè: ci sono gli Zen di oggi, né più né meno, è l’inizio di quell’idea lì. È chiaro, su quel versante la messa a fuoco – per me – è arrivata ora, però lì in nuce c’è tutto. Nonostante non fosse stato capito dagli addetti ai lavori, proprio quello è il disco capitato nelle mani di Brian Ritchie (dei Violent Femmes, nda), che poi ha prodotto Villa Inferno. Pensa, noi stavamo seriamente per scioglierci: io abitavo a Torino, eravamo passati da un periodo in cui andavamo a mille – Doctor Seduction era stato accolto bene, facemmo un sacco di date, entrammo nel mondo della musica indipendente – e …Nello Scarpellini… praticamente ci ammazzò. Noi lo adoravamo, però zero: suonare, che per noi era naturalissimo, divenne una guerra. Però arrivò fino a Brian, in Irlanda, tramite i Criminal Jokers (vedi archivio interviste, nda): vedi un po’ che giro…
Potere della musica…
È vero. Loro non si chiamavano ancora Criminal Jokers ed erano a Dublino per vedere i Violent Femmes. Non avendo nulla del loro materiale, nemmeno una demo, i ragazzi gli regalarono il nostro terzo album. Poi lui è arrivato ed è nato Villa Inferno, che amo, e la musica è diventata un lavoro: si era chiuso un cerchio, il primo percorso degli Zen. Pensa che quel disco si chiamava Andate tutti affanculo ed era tutto in italiano!
Però! Questa è una chicca!
Dovevamo fare un e.p. di otto pezzi, tutti in italiano, i tre di Villa Inferno e alcuni finiti poi sul vero Andate tutti… Sono pezzi – tipo Vent’anni – nati con urgenza, in cinque minuti. A casa di mia madre, chitarra e via! Come diceva Bob Dylan: “Ce l’hai già, quella canzone lì”.
A proposito di Dylan (c’entra sempre lui, è l’atomo primigenio e imprescindibile, ogni qualvolta si parli d’urgenza espressiva, nda) e di Villa Inferno: He was Robert Zimmermann è una di quelle canzoni – secondo me – perfetta da canticchiare, anche sulla mia (defunta) Uno 1000 Fire, e sentirsi fichissimi come su una…
Cabriolet, sotto il sole della California! Sì, infatti! Pezzo vecchio, quello, vecchissimo: risale, addirittura, ai tempi di Doctor Seduction. Lo abbiamo ripreso quando venne fuori la storia con Brian e abbiamo voluto metterlo. Fa parte di una serie di pezzi folk-rock – come Time killed my love da Doctor Seduction – che, nella nostra personale visione, un gruppo nella sua carriera deve, prima o poi – se fa rock o pop-rock, nell’accezione più nobile del termine – fare. Oppure Ragazza Eroina da Andate tutti… Ti ci devi confrontare con quella roba lì, se sei un musicista, e noi regolarmente – anche nel prossimo disco nuovo – l’abbiamo fatto: perché la storia del rock è ciclica, son cerchi che vanno avanti.
Nulla si crea, tutto si ricicla…
È giusto. Tipo, per esempio, io adoro i Verdena (prossimamente su queste pagine, nda): sono il mio gruppo italiano preferito, al momento. Però fanno una musica che io, personalmente, non farei mai: per una questione di background musicale. Il loro ultimo disco è fighissimo e loro, secondo me, dovrebbero andare all’estero. Anche con l’italiano: quando siamo stati in tour con Nick Cave, all’estero non fregava niente a nessuno che cantassimo in italiano o meno!
Sarebbe ora di finirla con questi complessi d’inferiorità, legati all’idioma italico abbinato al rock…
Sono d’accordo. Pensa, Nada mi raccontava che – negli anni in cui l’Italia contava culturalmente e andava di moda, tipo i ‘60/’70 – loro andavano in tour in America e non per gli italiani d’America, ma per gli americani! In italiano! E non c’era nessun problema, nonostante quasi nessuno di loro sapesse spiccicare una parola d’inglese. Il problema è proprio quello: non bisogna scordarsi o scrollarsi di dosso la propria identità.
Altro discorso è la lucida presa di posizione di Francesco Motta (frontman dei Criminal Jokers, nda): “Canto in inglese perché è a quella scena musicale che ambisco e di cui mi sento parte”…
Io sono d’accordo con quello che dice lui e lo capisco. È come un fratello per me, quindi figurati… Io supporterò sempre i gruppi che cantano in inglese. Non come negli anni Novanta italiani, che se cantavi in lingua straniera ti facevano sentire una merda. Però, nemmeno il contrario: l’importante è crederci noi musicisti in primis, a livello artistico, e – quando poi questo accade – fuori la lingua non conta. Il mio sogno è che ci sia – e ci sarà, prima o poi – una specie di Radiohead italiani, che esporteranno la nostra lingua: sono certo che succederà e non canteranno in inglese, ma in catanese, magari! All’estero, in America, a Dublino, a Londra come a Reykjavík, non hanno certo bisogno dell’artista italiano che va lì a scimmiottare la loro lingua. L’unica cosa che contesto io, infatti, non è la ricerca linguistica, ma musicale: è l’identità propria che conta, perché del resto – all’estero – non gli importa nulla.
Quando eravamo in tour in Australia, il pezzo preferito dagli australiani era Vana Gloria: non gliene fregava una cippa che non capissero un cavolo di ciò che stavamo dicendo, ma trovavano peculiare che un gruppo spaccasse facendo una roba che – ritmicamente, almeno – era per loro inedita. Prendi Mexican Requiem: la adoravano, perché musicalmente va a toccare tasti che loro non hanno. Ovvio che poi, quando magari suonavamo Punk Lullaby, rientrassimo nel solco della loro tradizione musicale. Noi non abbiamo più investito su altre lingue – oltre all’italiano, come facevamo prima – dopo Andate tutti affanculo… Perché ormai ci campiamo da tre anni e la concezione lavorativa, nella musica, per me è fondamentale: voglio lavorare e voglio farlo bene, anche perché – facendolo io – posso far uscire dei gruppi per la nostra etichetta (Ice for everyone, nda), come i prossimi, che si chiamano Casanova. Lavorandoci noi, si può creare una scena che continui: per me è fondamentale che gli Zen stiano in Italia. In futuro, faremo certamente roba per l’estero, ma questo è il mio Paese, ne sono innamorato e voglio visitarlo in lungo e in largo, cantarlo, declamarlo. Ciò non significa che io mi metta a fare le manfrine ai gruppi, per farli cantare in italiano: pensa che tutte le band che stiamo producendo cantano in inglese! (risate, nda)
(Continua…)