Volete vantarvi con gli amici, presentando loro un musicista sconosciuto, inclassificabile, ambiguo e sovversivo? Tirate fuori il nome di Harry Partch. Un pioniere, un visionario, marginalizzato dal suo tempo, ignorato da case discografiche, dimenticato da stagioni concertistiche, snobbato dagli studiosi, quasi ignorato dalla saggistica. Anticonformista, ribelle, iconoclasta, vulcanico innovatore. Accanito fumatore di pipa, gran consumatore di sostanze psicotrope. Il Frank Zappa della classica. Figlio della frontiera americana, nato da genitori presbiteriani, missionari in Cina, tornati in patria poco prima della sua nascita, avvenuta centodieci anni fa, il 24 giugno del 1901, a Oakland, in California.



A soli due anni si trasferisce a Benson, Arizona, in un minuscolo villaggio lungo la ferrovia, trecento abitanti e undici saloon. È più il tempo che passa in strada (e al bancone dei saloon) che dentro le mura domestiche. Incontra musicisti ambulanti, diseredati, viandanti, homeless. Qualunque corpo vibrante (potenzialmente sonoro) lo attira. Impara a suonare clarinetto, harmonium, viola, organetti e fisarmoniche, banjo, chitarra, armonica, percussioni e cordofoni in gran quantità. A quattordici anni è pianista in un cinema di Albuquerque, New Mexico. Nel tempo libero consegna droga con la sua bicicletta scassata. Trascorre anni errabondi come hobo, nomade avventuriero, “viaggiatore senza meta, a cavallo delle rotaie, attraverso gli States”. Insofferente nei confronti dei percorsi didattici tradizionali, per più d’un decennio si tuffa nello studio dei fondamenti della musica occidentale.



“Diventai un solitario saccheggiatore di biblioteche pubbliche”, ricorda. Verso i trent’anni distrugge ogni suo lavoro precedente, divorato dal demone dell’originalità. Il temperamento equabile lo soffoca: non gli bastano i dodici tasti della scala del pianoforte, sette bianchi e cinque neri. Arriva a inserirne fino a quarantatre per ottava, su inquietanti tastiere di sua invenzione. “Non fabbrico strumenti, sono un musicista filosofo attratto dalla falegnameria”, si schermisce.

Modifica chitarre e archi, aggiunge corde, manici, fori e fessure, ponticelli, piroli, tavole; costruisce arpe e cetre giganti, xilofoni e salteri fantascientifici, utopistici flauti a quarto di tono, rami di eucalipto cosparsi di risuonatori, gong, casse armoniche; inventa le Cloud Chambers Bowls, campane ricavate da damigiane di pyrex tagliate a metà, il Chromeloedon, organo ad ance capace di emettere suoni microtonali, lo Zumofono, serie di 129 tubi d’alluminio da percuotere con speciali battenti, colossali marimbe a sei piani, fatte da canne di bambù, da lampadine, da serpentine sifoni cannelli multiformi, da lattine e bottiglie (vuote) di whisky. Il suo linguaggio lascia interdetti anche i critici di manica larga: bizzarro mélange di poliritmia africana, enarmonia greca, scale modali bizantine, strumenti babilonesi, lente pulsazioni da grosso motore diesel statunitense. Atmosfera primitiva, frizzante.



La sua musica è pratica vitalistica, rituale, che esalta il corporeo, l’istintuale, il sentimento orgiastico del tumulto dei cinque sensi, “combinazione di dramma e masque, rito e parodia, tragedia e farsa”, secondo lo studioso Giuseppe Scuri. Ogni rumore è sdoganato, tutte le impurità sono esaltate. Nella sua creazione tutto aspira a diventare happening: lo strumentista è spesso impegnato come attore, ballerino, mimo, funambolo, cabarettista, caratterista. Partch è favorevole alle contaminazioni d’ogni tipo: la musica deve associarsi al linguaggio, alla narrazione, alla danza, al teatro, ai suoni della natura, all’elettronica. Uno spiazzante patchwork sonoro. Wagner, al confronto, è un poppante. La sua opera surreale ed esagerata salta fuori dalla pagina, spiega le sue vele dentro di noi, ma non lascia traccia nella memoria. Preso a piccole dosi non fa male.