Non so se il progetto quinquennale che ha associato i Festival di Salisburgo e Ravenna potrà dare nuova vita alla “Scuola Napoletana”, ma l’ultima delle cinque opere (coprodotta con il Teatro Real di Madrid) senza dubbio riporterà l’attenzione di sovrintendenti e pubblico su Saverio Mercadante.
Andiamo con ordine. Sono essenzialmente d’accordo con il compianto Francesco Degrada, uno dei musicologi che più hanno studiato il teatro musicale italiano del Seicento e Settecento, il quale in un saggio degli Anni Settanta ha ampiamente documentato come la cosidetta “Scuola Napoletana” non sia mai esistita in quanto a unità di tendenza o di stile.
Indubbiamente, Cimarosa, Scarlatti, Pergolesi, Jommelli , Provenzale, Vici, Anfossi, Traetta, Leo, Durante, Vaccaj e via discorrendo sono stati compositori di grande levatura che ebbero una grande influenza in Italia e, tramite, la querelles des bouffons (la polemica tra il teatro d’opera italiano e quello francese che appassionò Parigi alla vigilia quasi della rivoluzione, all’estero). Ma i nomi associati alla “Scuola” rappresentano stili e approcci così ampi che la “Scuola”, abbracciando tutto, risulterebbe così eclettica da non significare un bel nulla.
Concentriamoci, quindi, su Mercadante, le cui opere più note – Il Giuramento, Il Bravo e Gli Orazi ed i Curazi – sono state riprese con successo in tempi moderni e alla loro epoca vennero considerate alternative al melodramma verdiano. Saverio Mercadante (Altamura 1795- Napoli 1870) fu autore prolifico di opere (specialmente di argomento drammatico) e di musica sacra. Le sue partiture sono caratterizzate da un’elaborazione armonica sottile e ricercata, da una veste orchestrale raffinata e ricca di spunti, da una vocalità ricca di tenuta inventiva. In breve, nell’ascoltare i suoi lavori si avverte il compiacimento per la bella pagina e per la cultura accademica.
I Due Figaro, la cui partitura è stata scoperta quasi per caso da un giovane ricercatore negli archivi del Teatro Reale di Madrid, fa conoscere un Mercadante differente da quello dei suoi lavori ripresi negli ultimi cinquant’anni. L’opera nasce in una fase in cui, lasciata Napoli, Mercadante lavorava in Spagna e Portogallo. L’origine è una commissione del Teatro Reale di Madrid su un libretto di Felice Romani già messo in musica da Michele Carafa (ne esiste un Dvd curato dall’editore Bongiovanni). Romani si basava su un seguito, non autorizzato, de Le Nozze di Figaro di Beaumarchais presentato a Parigi nel 1791 da tale Honoré-Antoine Richaud Martelly. La commedia deve avere avuto successo perché è stata ripresa più volte e tradotta in varie lingue sino alla fine dell’età Napoleonica. È una pièce di pura evasione, quale poteva attirare il pubblico nell’Europa della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
Una commedia di equivoci e di travestimenti in cui a un Figaro diventato padrone del Castello (tutti sembrano rinnegare l’autorità del Conte d’Almaviva) si contrappone un Cherubino (ormai maturo) travestito negli abiti dell’ex-factotum. In effetti, quando Mercadante compone l’opera siamo in piena restaurazione. Una restaurazione a cui la borghesia (Figaro, Cherubino travestito da Figaro, Ines figlia del Conte) si oppone.
C’è anche un tocco pre-pirandelliano (analogo a quello del rossiniano Il Turco in Italia): uno dei personaggi è un letterato con l’ambizione di scrivere una commedia – proprio una commedia si dipana di fronte ai suoi occhi. La commedia non scende mai in farsa – il libretto lo chiama “melodramma” nel senso etimologico di azione scenica in musica – e non manca un pizzico di satira politica (quindi, gli ostacoli frapposti dalla censura dal 1826 al 1835, quando il lavoro andò finalmente in scena).
Dall’overture iniziale, in cui elementi di musica spagnola (bolero, fandango), si inseriscono in una struttura tradizionale che anticipa i temi dell’opera, avvertiamo che siamo lontani dal teatro comico napoletano: siamo nel mondo semi-serio di Mozart e Donizetti, con grande attenzione all’eleganza formale, ma anche con un significato etico (i “birboni” vengono puniti dalle dissonanze prima e più ancora che dal libretto).
Muti accarezza con cura la partitura, affidata all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini (il coro è il Philarmonia Chorus Vienna). La regia di Emilio Sagi, le scene di Daniel Bianco e i costumi di Jesùs Luiz ci portano in un mondo quasi viscontiano (quello delle celeberrime Nozze di Figaro prodotte per il Teatro dell’Opera di Roma negli Anni Settanta e riprese con successo negli Anni Novanta). Un mondo, quindi, non di farsa ma di “commedia per adulti” densa di significato etico-morale (i malintenzionati sono puniti dalla partitura prima che dal libretto).
Di alto livello il cast di giovani scelto con cura da Muti. Il gruppo femminile (Rosa Feola, Asude Karayavuz, Eleonora Buratto e, soprattutto, Annalisa Stroppa) è leggermente migliore di quello maschile (Antonio Poli, Mario Cassi, Anicio Giorgio Giustiniani, Omar Montanari). Posso scommettere che “saranno famosi” Annalisi Stroppa, un eccellente contralto, e Antonio Poli, un tenore lirico di grande agilità.