Negli andirivieni che da cinquant’anni circondano il nome dei King Crimson e di Robert Fripp, è apparso qualche giorno fa un nuovo capitolo. Si tratta di un disco attribuito a Fripp in compagnia di Jakko Jakszyk e Mel Collins. L’album, A scarcity of miracles, in copertina offre un dipinto della pittrice britannica Pamela June Crook, si presenta come un “king crimson project” e della leggendaria formazione inglese ha quasi tutti gli ingredienti: musicisti storici (ci suonano anche Gavin Harrison e Toni Levin), complessità melodica, vastita di influenze, inafferrabilità dei significati, multistratificazione degli arrangiamenti.
Fripp – inutile aggiungere aggettivi al lavoro di questo musicista unico – costruisce anche in questo lavoro tappeti chitarristici variegati, mentre Jakszyk (che ha legato il suo nome alla lunga esperienza con i Level42) si occupa delle altre chitarre, ma soprattutto dei testi e delle voci. I sax di Collins sono il legame di ambient-poetico delle tante facce del disco, che è un opera di cinque ultrasessantenni che si domandano – e qui sta il bello – se in giro per il mondo ci siano ancora i miracoli che dovrebbero “illuminare il presente non luminoso”.
Inutile, forse, chiamarle “canzoni”: i sei brani presentano scenari, illustrano orizzonti, ovviamente senza mai interpretare un canovaccio riconducibile al modello canonico di brano rock. Tra analisi intimiste e tentativi di osservare il presente “di sensi non presenti” si svolgono la dolceamara The price we pay e il lungo mantra di Secrets; è invece un caleidoscopio di sfaccettature ingannevoli quello presentato da The other man, l’unico che si inoltra su terreni riconducibili a sonorità rock, un brano che più ancora degli altri ruota attorno alle domande-affermazioni “cosa è la verità, cosa sono io veramente, perché devo cadere”, le stesse che in modi bizzarri, criptici e impensati accompagnano la traiettoria crimsoniana dalla celebre 21st Century Schizoid Man.
Il viaggio termina nei nove minuti di The light of day, un’ode recitata (in un contesto che fa molto David Sylvian…), accompagnata da soluzioni sonore impressioniste, con un testo che suggerisce che siamo tutti in cerca di riconoscere la luce del giorno, la stessa di cui siamo tutti fatti. Non si tratta di un disco facile, di una colonna sonora da spiaggia o di un lavoretto destinato a circolare su Radio DeeJay, ma di uno di quei prodotti che dovrebbero far parte di un lascito adulto della musica contemporanea.
Più figlio dell’avanguardia contemporanea che del rock, questo prodotto di Fripp-Jakszyk-Collins ha però qualche caratteristica meta-musicale, già a partire dal titolo, che narra di una scarsità di miracoli. Una carenza che, nella cover, è raffigurata da bambini in cammino che portano pani, pesci, vino, fiori. Sullo sfondo ci sono i simboli dei quattro evangelisti. Sembra un’umanità che porta le proprie povere cose a chi potrebbe trasfigurarle, rigenerarle. Non ho letto alcuna recensione – italiana o straniera – che si ponga la domanda sul perché Fripp e soci, leoni della ricerca musicale contemporanea, esploratori dei confini più estremi della densità dei suoni, abbiano dedicato un disco e le sue “canzoni” alla necessità di incontrare miracoli. Necessità che, credo, potrebbe accomunarci. Tutti.