Italiani d’America. No, non sono simpatiche caricature tipo l’Alberto Sordi del celeberrimo film, sono piuttosto la dimostrazione che decenni di ascolti intelligenti e di immedesimazione con un linguaggio sonoro “altro” possono portare a risultati sorprendenti. La dimostrazione poi che la musica è autentico linguaggio musicale quando, più della tecnica – che pure nei dischi di cui parleremo ce n’è moltissima – conta il cuore e la passione. Mettersi sulla lunghezza sonora di altri mondi a volte porta a risultati sterili. Non è il caso di questi tre cd, nell’ordine in cui ne parleremo: “Profondo basso”, di Antonio “Rigo” Righetti (ex bassista di uno dei primi combo autenticamente rock d’Italia, i Rocking Chairs, e poi per circa quindici anni nella band di Ligabue); “Lights Of Your party” della The Piedmont Brothers Project (il veterano della country music italiana Marco Zanzi in coppia con l’americano Ron Martin); e “Sin Train” del milanese Luca Milani, un passato in varie rock band e da alcuni anni solista di lusso.



“Profondo basso” (Rai Trade/Videoradio) è un disco al fulmicotone. Quasi interamente strumentale, è il disco di un bassista che si cimenta nei linguaggi del groove, del ritmo, della forza ritmica che sostiene da sempre i gruppi rock. Lo fa facendosi accompagnare da ospiti eccellenti quali il chitarrista Federico Poggipollini (Ligabue band), il polistrumentista Mauro Pagani (ex Pfm, ex produttore di De André) ed Edoardo Bennato all’armonica. Questi gli ospiti principali, perché nel disco sfilano eccellenti musicisti come lo straordinario batterista Riccardo Speca (l’attacco del primo brano, 60’s Gtr, è quanto di più eccitante e roboante si sia ascoltato in un disco italiano da decenni).



E ancora: il chitarrista Max Cottafavi, Giorgio Speranza alle tastiere. “Rigo” Righetti tiene tutto insieme con il suo basso che non lascia prigionieri: brani che spaziano dal funk più incisivo alla fusion più intensa, dal groove rock a colonne sonore senza film, come la bellissima The Bad, The Ugly and the Rastaman. C’è la faccia black dell’America, quella senza cui le dinamiche ritmiche della musica rock non esisterebbero, e c’è la passione sapiente di Righetti, uno dei migliori musicisti italiani in assoluto. Un disco robusto, senza cadute di tono, musica metropolitana per aprire squarci di poesia in un mondo che ne ha sempre meno.



Con La Piedmont Brothers Project ci spostiamo in tutt’altre altitudini sonore, esattamente a metà strade tra Nashville, capitale della musica country, e e le Blue Ridge Mountains, dove nasce il folk d’America. Il progetto è tenuto insieme dal validissimo polistrumentista di Varese Marco Zanzi e dall’americano Ron Martin, voce solista e songwriter del North Carolina. E’ dunque un disco che da una parte paga tributo alla grande stagione del country rock americano dei primi anni Settanta, con riprese di brani celebri come A Child’s Claim to Fame dei Buffalo Springfield, Carolina in my Mind di James Taylor (eccellente rilettura lenta per voce, quella piena di sentimento della brava Rosella Cellamaro) e finanche il Bob Dylan della svolta country con One More Night, resa in classico stile Carter Family con le voci  di Cecilia Zanzi e Lucia Maniscalco.

Dall’altra spazio alla grande musica strumentale su cui si è costruita la base della musica rock, con le influenze irish ed europee: qui spiccano Irish Spring con il contributo importante di Carlo Pastori alla fisarmonica, e Bob’s Spot, con la presenza di Walter Muto alle chitarre acustiche. Tanti gli eccellenti musicisti coinvolti nel progetto, da Marcello Colò e Franco Svanoni a batteria e percussioni, a Stefano dall’Ora e Annina Satta ai violini al poderoso bassista e chitarrista Francesco Frugiuele. Ci sono infine i brani autografi del bravo Ron Martin, ad esempio la title track, ma anche il brano manifesto del disco, My Brother, splendida ballata reminiscente del jingle jangle sound dei Byrds.

Infine Luca Milani con “Sin Train”, il treno del peccato. La faccia individualista, solitaria e intensa dell’America più profonda, quella dei beautiful loser e dei cantautori che da Johnny Cash allo Springsteen di pagine come Nebraska, interpretano l’anima più oscura e passionale della musica americana. Luca Milani ha una bellissima voce, che a tratti ricorda quella straordinaria di John Gorka, validissimo cantautore celebre soprattutto negli anni Ottanta. Il passo sonoro delle sue canzoni è quello di ballate del crepuscolo, con accompagnamento spartano che si limita alla sua chitarra acustica, alla sezione ritmica e a una slide guitar, a volte un tocco discreto di pianoforte, perfetto per creare ambientazioni che portano di peso ai confini delle grandi città, in una atmosfera sospesa come quella del crepuscolo. Un disco che si ascolta tutto d’un fiato, senza pause, dall’iniziale, energica, quasi rock Bandit alla conclusiva A Place to Stay Bright che con il suo simpatico ukulele svela la speranza che soggiace in tutto.
In mezzo gemme di intensità profonda come Snow in Milan o Until the End, brani che offrono consolazione e redenzione per chi arriva alla sera con un peso troppo forte da portare sulle spalle. Perché in fondo la musica, quella vera, è questo: consolazione e redenzione.