Che puoi dire o pensare della morte di una ragazza di ventisette anni? Che puoi scrivere della fine di una ragazza che probabilmente aveva talento e forse avrebbe avuto davanti qualcosa da fare o da dire, musica o non musica a portata di mano? Purtroppo quello che è capitato ad Amy Winehouse nel tragico pomeriggio di Camden era tristemente prevedibile; strano – forse – che non fosse tutto capitato prima, vista l’incapacità di questa ragazzina di origine russo-ebrea a staccarsi dalle bottiglie e dagli stupefacenti d’ogni ordine e potenza. Emersa dal nulla nel 2003, Amy ha interpretato con personalità particolarissima un ritorno al soul e al rhythm’n’blues verace ed autentico. Nulla a che vedere con le falsità campionate e scintillanti delle varie Beyonce o Cristina Aguileira: Amy era una donna imperfetta in tutto e se ne faceva un vanto, laddove le altre sembrano macchine programmate per il successo. La sua canzone migliore, Rehab, conteneva tutto il suo mondo: testa dura e tossicità pregresse raccontate con una metrica indolente su una buona base soul. Ora che l’universo la sta descrivendo anche ben oltre i suoi effettivi pregi, la carriera della Winehouse si presenta come quello che è: due dischi ed un inizio interessante per una vocalist che aveva certamente un magnetismo speciale, ma che forse non aveva le caratteristiche di chi parte per lasciare un segno artistico indelebile.
Amy aveva una marcia in più? Sarebbe diventata strepitosa? Quanta parte del suo successo derivava direttamente dalla sua eccentrica capacità autodistruttiva? Quanta parte degli applausi erano indirizzati al suo non riuscire a stare in piedi normalmente durante un concerto? Di quale futuro sarebbe stata capace non potremo mai sapere di più – io non ci metterei la mano sul fuoco – mentre ciò che ci lascia è la sua assenza e la sua prevedibile e purtroppo inevitabile mitizzazione, che accompagna dagli anni Sessanta i martiri della rock-life, trasformati in feticci separati dai loro autentici contributi artistici. Accolta con sgomento e subito forgiata di lacrime, enfasi e gossip, la tragedia di Amy ha già preso le pagine dei giornali e le aperture dei tiggi, sovrastata soltanto dall’immane massacro norvegese.
I video di Back in Black e di Rehab sono stati visti su Youtube oltre tremilioni di volte nel week end in corso, preparando ristampe milionarie, antologie, dischi di inediti, registrazioni live, docu-film e bio-pics. Ovviamente i soliti idioti hanno già postato on-line cose simpatiche, del tipo, “Dio restituiscici Amy, ti diamo in cambio Lady Gaga”, ma si sa che i social network non sono un antidoto all’idiozia, che anzi si estende, si trasforma e diventa curiosità macabra e cabalistica. Così la “maledizione dei 27anni” diventa una sfera da sondare sui quotidiani come su facebook, visto che unisce Amy ad alcuni tra i più grandi dell’empireo rock, sia le tre “j” della Woodstock generation (Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin), che Brian Jones, che il più vicino a noi Kurt Cobain.
La conta dei “Buoni che muoiono giovani” rimane uno sport praticato, sempre però scisso da uno straccio di compassione o di domanda. Negli anni del flower power non si capiva ancora bene cosa avrebbe generato l’eccesso di droghe e alcool e così i caduti sono stati tanti e… inconsapevolmente ingenui. Oggi, purtroppo, si sa benissimo cosa succede: per questo risulta impressionante e insopportabile la leggerezza con cui le persone intorno a lei – manager in primis – non hanno avuto la capacità di evitargli questa fine, così come hanno avuto il merito di farle tentare la recente tourneé abortita dopo l’apparizione disastrosa di Belgrado e la cancellazione delle date successive (Lucca compresa).
Comunque sia, Amy è una ragazzi di ventisette anni che si è spenta nella sua casa, dopo mesi trascorsi infruttuosamente a cercare di disintossicarsi. Incapace di controllarsi, incapace di darsi pace, equilibrio, umanità. Purtroppo non ci si può togliere dalla testa le sue parole in Rehab: “They tried to make me go to rehab but I said ‘no, no, no’ Yes I’ve been black but when I come back you’ll know know know”. Quanta gente ha canticchiato, riso, ballato, sballato e guadagnato, su quel “no, no, no”, detto dalla Winehouse a chi le proponeva di andare in riabilitazione. Perché quel “no, no, no”? Cosa c’è dentro certi cuori – senza ipocrisia ognuno ci metta pure il suo, a piacimento – orgogliosamente anarchici? Cosa cercano nel fondo cupo non del bicchiere, ma di una vita sempre più autonoma, intensa, irrefrenabile? L’autodistruzione che è del nostro tempo e della bella vita di coca e whysky, continua a mietere vittime che non hanno – a differenza di Amy o di alcune top model – neppure la nobiltà della citazione giornalistica. Gente che se ne va reclamando forse una preghiera, urlandoci la necessità di una condivisione, singhiozzando l’impossibilità di un solo brandello di pace, come in un’attualizzazione estrema del Grande Gatsby.
Tutto questo sfugge ai media: dovrebbero riflettere su se stessi. Tutto questo è evitato da quel potere che – oggi come ai tempi di Riesman e di Pasolini – si nutre e ci appiattisce sul grande ed onnivoro consumo. Tutto questo può essere non evitato solo da chi di fronte alla scomparsa di una ragazza può pensarla nella sua domanda autentica, oltre la sua icona fotografata on-stage. E allora, please, non ricordiamo Amy solo per la sua breve carriera. Non ricordiamola fingendo che fosse quella leggenda musicale che non aveva ancora potuto diventare. Ricordiamola perché nella sua morte ci sfida un mondo di mode, di alcool, di emozioni, di serate, di amori, di trasgressioni, di divertimenti, di spasmodiche avventure di letto, di tacchi a spillo e di supercar. Il tutto senza regole, senza direzioni. Soprattutto senza uno straccio di compagnia in grado di guidarti fuori dalle scintillanti solitudini e a cui poter dire – magari con orgoglio, ma senza paura – “si, si, si”….