Ventisette anni, età maledetta- pare proprio- in cui morire per tante stelle della musica. L’elenco è impressionante: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Brian Jones, Robert Johnson (sommo bluesman), Ron ‘Pig Pen’ McKernan (anima dei primi Grateful Dead), Gary Thain (bassista degli Uriah Heep)… e ora anche Amy Winehouse, scomparsa lo scorso 23 luglio.



Molto si è scritto sul comportamento di Amy, sui suoi eccessi comportamentali, sulla sua persecuzione da parte dei famigerati tabloid britannici- Norman Lebrecht, distinto commentatore musicale, ha addirittura presupposto sia stata quest’ultima la vera causa della morte- e sulla sua imprevedibilità professionale, riassunta dall’ultima, penosissima esibizione a Belgrado; relativamente poco, si è parlato della sua musica, e questo vorremmo fare ora.



Il primo dato che balza all’occhio dalla biografia della cantante è che fin da piccola crebbe a contatto col jazz, dato che molti zii materni erano jazzisti professionisti e addirittura la nonna materna ebbe una storia d’amore col leggendario sassofonista Ronnie Scott ; informazione, questa, preziosissima, se pensiamo a quanto disse il pianista di Scott, Stan Tracey, in un’intervista del 2002 al periodico Record Collector, ossia che ‘il jazz è un tantino troppo esotico per gli inglesi’. Molto spesso in Gran Bretagna il jazz, il blues o il soul- si pensi al fenomeno del ‘Northern Soul’, con la sua spasmodica ricerca di rari dischi USA da suonare ai raduni notturni- sono stati utilizzati come valvola di sfogo, come scappatoia temporanea, da una situazione sociale considerata oppressiva o rigidamente classificatoria (il ben noto ‘sistema di classi’ inglese), e insieme come adesione a una vera o presunta ‘libertà di espressione’ che non si poteva ritrovare nella musica dei genitori.



Anche quando Amy passò dagli inizi jazzistici ad una musica più connotata di soul,  come nel suo immenso hit Rehab, la situazione non cambiò affatto, giacché il riferimento restava comunque un ambito artistico ‘esotico’, liberatorio, attento alle intime pulsioni e non agli atteggiamenti esteriori.

Al contempo, però, il confronto con la musica afro-americana, fortemente intrecciata di sacro e profano risolti in una sublimazione suprema della bellezza nata dalla sofferenza, risultò in definitiva frenato da una componente molto britannica del carattere di Amy: da una parte, le sue bizzarrie si inserivano perfettamente nella categoria degli ‘eccentrici’ di cui è piena la storia inglese, forse già dai tempi della Magna Carta, ossia la classe di persone cui è concessa qualche bizzarria a patto di non interferire con l’ordine costituito (John Lennon non seppe, o non volle, comprendere questo e lo pagò duramente), mentre dall’altra possiamo senza sforzo reperire nella breve e tragica vicenda umana della cantante segnali di comportamenti consacrati dalla storia culturale britannica.

Ritroviamo infatti in Amy Winehouse il gusto dell’eccesso che fu di Coleridge e Swinburne, il fascino delle dipendenze farmacologiche che fu di De Quincey, il gusto del consumar la vita velocemente che fu di Shelley, la propensione per ‘scandalizzare il borghese’ che fu di Wilde: tutti questi elementi, uniti ad un innegabile talento, contribuirono a creare la miscela esplosiva che alla fine si ritorse contro il suo creatore, proprio come- altro esempio culturale- il mostro di Frankestein creato da Mary Shelley (lei stessa appena diciannovenne quando creò il personaggio).

Secondo i tabloid Amy Winehouse ‘è morta serena’: auguriamoci che sia così, e che almeno in questo supremo momento di passaggio la cantante abbia trovato la pace e la serenità che andò ricercando affannosamente, al di là degli eccessi, per tutta la sua breve permanenza fra noi.