Nell’arco di cinque settimane, a Salisburgo vengono presentati circa duecento spettacoli con un fil rouge. Il tema di quest’anno è “La Fede e il Diavolo”.
Tre le opere liriche presentate spicca “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hafmannsthal e Richard Strauss in co-produzione con la Staatsoper di Vienna dove entrerà in repertorio. È un lavoro complesso intriso di senso della trascendenza e di senso della famiglia tanto che quando un quarto di secolo fa venne presentata un’edizione alla Scala – un nuovo allestimento è in programma la prossima stagione – un giornalista poco attento, e meno informato, disse che doveva trattarsi di propaganda per il Movimento per la Vita.
Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando, durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere Der Rosenkvalier (“Il Cavaliere della Rosa”) si scherniva dicendo che era uno lavoro troppo lungo, e, quindi, troppo faticoso per un uomo che viaggiava verso l’ottantesimo compleanno. Diceva agli amici: “però, se mi chiedessero dirigere Die Frau ohne Schatten, forse risponderei di sì”. Eppure Die Frau ohne Schatten è più lunga e molto più complessa (sotto il profilo orchestrale e vocale) di Der Rosenkvalier.
Die Frau ohne Schatten viene rappresentata raramente in Italia; negli ultimi trent’anni, ne ricordo un’edizione alla Scala e una a Firenze – ambedue con una regia minimalista di Jean Pierre Ponnelle commissionata del Teatro dell’Opera di Colonia, da dove i due teatri italiani hanno noleggiato l’allestimento, nonché una a La Fenice a Venezia e un’altra al Maggio fiorentino del 2010. Viene spesso detto che una delle ragioni per la scarsa presenza di Die Frau ohne Schatten nel nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la pucciniana Turandot.
Viene anche detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere compreso. In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le favole. Ma Die Frau ohne Schatten è una favola, solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano dall’editore Adelphi circa vent’anni fa e forse neanche il recente mirabile saggio di Mario Bortolotto “La Serpe in Seno”.
Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via).
Il filo dell’apologo è lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di sofferenze. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti.
Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente.
La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Hofmannsthall e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dal primo conflitto mondiale: non per nulla nella loro opera precedente – Ariadne auf Naxos – avevano cantato, in piena guerra mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Il messaggio è più che mai attuale oggi in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più e in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire.
Per dare questo messaggio, Strauss avvolge il bel testo di Hofmannsthal di una partitura sontuosa: un sinfonismo continuo in buca di impronta wagneriana corredato da sette intermezzi – tutti su variazioni dello stesso tema – un espressionismo vocale che arriva a scelte stilistiche difficilissime (e che pochi interpreti osano affrontare), l’impiego di scale cromatiche complesse (anche mascherate) per dare, unitamente a contrappunti timbrici, una tavolozza di tinte sgargianti ai vari momenti della favola-apologo.
Per il direttore d’orchestra le difficoltà sono enormi: l’orchestrazione è molto fitta ed è spesso difficile tenere un equilibrio con le voci (essenziale non solo sotto il profilo tecnico-musicale ma anche per fare comprendere il testo, peraltro di grande bellezza). Lo stesso Strauss ne era consapevole e, negli ultimi della sua vita, stava lavorando a un’orchestrazione semplificata. Inoltre, la partitura ha una combinazione contrastante di cameristico e di sinfonico; a musica molto leggera (a momenti per pochissimi strumenti e un magnifico a solo per violoncello) fanno riscontro momenti come la conclusione del secondo atto in cui è essenziale ridurre il volume del suono in buca per fare ascoltare il dialogo in scena.
Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena – ciò comporta grandi difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci e tra esse e l’orchestra. Si è messo accento sull’orchestrazione in questa “chronique” dello spettacolo, perché, a Salisburgo, Christian Thielemann e Wiener Philarmoniker sono stati abilissimi nel trovare i giusti equilibri e gli impasti appropriati. Sono stati, meritatamente, applauditissimi dal pubblico di un teatro stracolmo.
La regia di Christof Loy (la scena è di Johannes Lelacker, i costumi di Ursula Renzenbrink ) è una lettura tutt’altro che tradizionale del testo. Siamo in un sala di registrazione (la Sophiesaal di Vienna) dove Karl Bhoem concertò, con un cast di favola, la prima registrazione davvero professionale dell’opera. I cantanti arrivano con lo spartito in mano; ci sono i leggii, la cabina di regia. Man mano che il lavoro avanza si trasformano nei personaggi che interpretano sino al grandioso trionfo della vita e della famiglia, che alcuni hanno trovato non di buon gusto ma che è necessario a suggellare il messaggio del lavoro…
La recitazione è perfetta, come per un dramma in prosa di qualità. L’opera è rappresenta senza alcun taglio, ma lo spettacolo scorre per circa 4 ore mezzo rapidamente e senza momenti di stanchezza. E la sera del 14 agosto il pubblico si è fermato per un quarto d’ora d’ovazioni.
Tra le cinque voci dei protagonisti, spicca Evelyn Herlitzius (“La donna”): ha affrontato stupendamente l’impervio ruolo, con sontuosi acuti da soprano drammatico e un volume che ha riempito il grande teatro.
Ottima anche la giovane e bella Anne Schwanewilms (“L’impetratice”), sublime nel fraseggio e nei legato. Michaela Schuster è stata una “La nutrice” di livello, con qualche difficoltà, però, nello scendere a tonalità gravi. Wolfgang Koch (“Barak”) ha confermato di essere uno dei più duttili baritoni wagneriani-straussiani su piazza. Stephen Gould è un tenore eroico di livello, ma il suo timbro non ha più la chiarezza di un tempo.