“L’importante è esagerare, sia nel bene che nel male”, cantava Enzo Jannacci in una delle sue tante splendide canzoni, che a me spesso ricordano ballate a tempo di blues. Nella mia professione di giornalista non sono mai riuscito a scrivere di musica, se non in termini generici e con notazioni banali. Per cui, giornalisticamente, scrivendo di musica e musicisti, non facevo altro che esagerare.



Come tutti i vecchi liceali degli anni Sessanta, non conosco la musica e ho nozioni approssimative di storia della musica. Eppure avevo tutti i connotati cromosomici per comprendere e magari studiare musica. Il mio bisnonno materno, un Morenghi, era un socialista cremonese che sistematicamente prendeva le botte dal ras fascista Roberto Farinacci, ma si riscattava ampiamente con il titolo e la professione di primo violinista del Teatro Ponchielli. Da bambino sono cresciuto nel ricordo di una nonna bellissima e sfortunata che non ho mai conosciuto, la nonna Olga. Mia madre diceva che conosceva e cantava tutte le più note e importanti romanze del melodramma italiano. Poi, alle scuole elementari e alle medie, al Collegio San Carlo di Milano, avevamo un’ora alla settimana di canto, dove una graziosa maestra ci insegnava a leggere la musica. Da solo, in casa di un mio zio che possedeva un pianoforte, riuscii a suonare alcuni motivi, sia “a orecchio” sia per le nozioni di base che avevo imparato.



Confesso però he la demotivazione e l’autentico disastro arrivò con l’avvento della televisione e soprattutto con la diretta del Festival di Sanremo. Mi scuso se sono molto politicamente scorretto: detestavo il Quartetto Cetra che imperversava sul piccolo schermo a tutte le ore. E addirittura scappavo quando sentivo un cantante che mi dicevano bravo: Natalino Otto. Ma l’autentico choc avvenne con il Festival nazionalpopolare. E poiché ero un bambino non posso essere tacciato di snobismo.
Il fatto è che la mia famiglia possedeva uno dei primi televisori e quindi doveva ospitare quasi tutti gli inquilini dello stabile, con la famiglia del portiere al completo. Al primo Festival televisivo di Sanremo, io ero accovacciato, timoroso, su un divano accanto a mia madre, e non potevo muovermi mentre la platea casalinga ascoltava le canzonette con lunghi silenzi, approvazioni e, a volte, qualche pianto.



Ricordo perfettamente quella prima serata sanremese come un incubo da cui mi sono liberato dopo molto tempo. Alla settima canzone consecutiva, mi pare “Vecchio scarpone” di un tale Oscar Carboni, cominciai a diventare paonazzo, con stranguglioni e convulsioni di tosse. Forse ebbi anche un accesso febbrile, perché si spaventò anche mio padre che decise di portarmi al “Pronto soccorso”. Dove per altro non mi fu diagnosticato nulla di rilevante: forse una caramella andata di traverso. 

Mi sono quindi giocato il Festival di Sanremo per il resto della vita, ascoltando talvolta qualche cosa da altre stanze della casa, riservandomi qualche sbirciatina con il terrore dello stranguglione incombente. Recuperare un rapporto con la musica, in particolare con la musica leggera, fu una lunga impresa della mia adolescenza.
Mi piacque la Scala e provai i brividi (anche ora per la verità) quando ascoltai l’Ouverture de “La forza del destino”. Poi ci fu la conoscenza del jazz di Glenn Miller, di Benny Goodman e di Duke Ellington, fino al cool jazz. Poi i primi “maestri” del boogie woogie e quindi del rock. Ascoltavo alcuni pezzi con piacere. Scoprii lentamente la musica brasiliana (adoro letteralmente la canzone Bahia) e apprezzai la musica epica di Bob Dylan e del boss, Bruce Springsteen. Quando il boss venne in tournée in Italia, a San Siro e a Torino, il Corriere della Sera mi fece scrivere dei pezzi di ambiente e io sconfinai, esagerando, nella musica di Springsteen.

Ma questo recupero di una dimensione musicale era dovuto a una maturazione avvenuta nei primi anni Sessanta. Abitavo in viale Cermenate, confine viario con il popolarissimo quartiere della “Baia del Re”. Al pomeriggio e alla sera, mentre frequentavo l’Università, mi spingevo fino a Porta Lodovica dove c’era (e c’è ancora) un bellissimo bar, uno dei primi snak milanesi, il bar “Gattullo”. Non aveva biliardo, ma tanti avventori simpatici con i quali feci amicizia. Un’amicizia sottile, che sembrava quasi impalpabile, fatta di poche parole, di frequentazioni occasionali ma quasi perpetue.

C’è oggi una fotografia che ricorda quei tempi. Vi si vede un giovanissimo Giorgio Gaber (battagliammo per una morosa comune che si chiamava Liù, in quanto nipote di un grande cantante lirico), c’era lo scanzonato Renato Pozzetto, che a quell’epoca veniva chiamato Marlon Brando, un giovanissimo, bravissimo e sfortunato giornalista sportivo, Beppe Viola, Cochi Ponzoni, e un irriverente personaggio con gli occhiali dalla montatura pesante, Enzo Jannacci.

A loro modo erano già tutti famosi. Collocare le date di quella piccola storia umana è difficile. Sta di fatto che tutti questi personaggi, oggi quasi mitici, mi fecero passare il “complesso dello stranguglione” infantile. Certo Gaber, certo Pozzetto con le anarchiche e paradossali parlate a suon di musica. Ma soprattutto Jannacci funse da sdoganamento principale.

Io non ricordo qual è stata la prima canzone che ascoltai di Jannacci. Ricordo poco anche i titoli esatti della sue canzoni. Ma da quarant’anni, quando sono sereno, ricordo perfettamente delle strofe delle sue canzoni. Cerco nella memoria e mi chiedo: quale è stata la prima? Quella che lo rese famoso al grande pubblico? Quella del barbun che portava le scarpe da tennis? Oppure Veronica, il primo amor di di tutta via Canonica, che amava sol la musica sinfonica, ma la suonava con la fisarmonica. Veronica, con te non c’era il rischio del platonico… al Carcano in pé…? Oppure, il primo furto non si scorda mai? O ancora: dietro ai vetri della mia finestra si rincorrono lacrime di pioggia… mi hai lasciato senz’acqua il canarino, mi hai lasciato il gatto senza ciccia, mi hai rubato anche l’argenteria… cosa faccio, amore mio? Io ti denuncio! O ancora: “Tò cumprà i calzet de seta cun la riga nera… me pareva d’andà in gir cunt una pantera”?.

Il fatto che Jannacci cantasse spesso in milanese indusse qualche supercritico del menga a definirlo un cantante dialettale. A quel tempo, i buontemponi dei critici non sapevano che gli chansonnier francesi cantavano in argot, una sorta di dialetto iniziatico, e che comunque il dialetto di Milano rappresentava pur qualche cosa in quell’Italia del boom che emigrava per necessità di lavoro verso Milano. Non capivano che Jannacci, tra quel dialetto molto accessibile, intercalato da un italiano con marcato accento lombardo, stava costruendo lo slang dell’Italia moderna, industriale, rinata dopo la guerra, che sostituiva le senz’altro bellissime, ma un po’ pallose a volte, stornellate romane e le passionali cantate napoletane.
Ci vollero anni per farlo comprendere ai soloni della “critica-critica”, per usare un linguaggio marxiano. Ma in più, Jannacci, attraverso quelle canzoni consegnava un mondo che tutti vivevano tutti i giorni, ma che i “puristi” non vedevano, o non volevano vedere.

Era inevitabile che, nel mio caso, si esaurisse il “complesso dello stranguglione”. In quelle canzoni di Enzo c’era ironia, paradosso, voglia di vivere, pietà, grande umanità, con uno sguardo romantico e nello steso tempo realistico della vita. Il fatto incredibile, a mio parere l’autentica innovazione e il capolavoro di Jannacci, era quello di mettere in scena, per musica, una storia che diventava una grande ballata, con un impianto musicale solidissimo, molto jazzistico, e un’incalzante melodia molto ritmata che ti restava in mente e non la dimentichi neppure oggi.

Qui ricordo due storie incredibili di malavita milanese che strappano sempre l’applauso: L’Armando e il Palo dell’Ortica. Il primo confessa un delitto negando in modo maldestro e raccontando al commissario che lo interroga una storia di piccoli episodi esilaranti: “stessa strada, stessa osteria, stessa donna, una sola, la mia”. Il secondo è il “palo”, quello che deve avvertire in tempo i complici che stanno facendo il colpo e che dovrebbe avere vista e udito sensibilissimi, e invece, nella canzone, è mezzo sguercio e quasi sordo. 

Ballate, con tonalità diverse, sono anche “Ho visto un re” e “Prete Liprando”, oramai quasi introvabili per chi non sa usare il computer (come me), ma quasi indimenticabili. Così come indimenticabile è un’altra storia milanese, allo stesso tempo tenera e grottesca: “L’avevi conosuda visin a la Breda… la gaveva un vestitin culur de trasù… un dì l’avevi purtada a vedè la fera… disse vorrei un crafen, non c’ò moneta… pronti gu dà des chili e lo vista pù”. E’ una spaccato di ironia epica.

Ma Jannacci non è mai stato a senso unico. Accanto alle ballate, c’erano autentiche poesie, niente affatto urlate. Vincenzina ad esempio, motivo conduttore del film “Romanzo popolare”, è una moderna poesia musicale, condotta sulla condizione di una donna del Sud in una fabbrica del Nord. È una canzone quasi sussurrata, impastata di tenerezza, di nostalgia, di una umanità tanto ricca da portarti alla commozione. Ma c’ancora un altro Jannacci indimenticabile. Quello che io chiamo il “filosofo”, che recita in musica atteggiamenti incontestabili e degradanti della realtà in cui viviamo. “Porti le Timberland e fumi le Malboro… sun sciupà, sun sciupà… hai presente una vita”. Oppure: “Ma me lo dovevi dire prima che hai perso il lavoro, Bisogna sempre dirlo prima che hai perso il lavoro”.

Sono solo la premessa a quella che appariva un tormentone, ma che dovrebbe essere una canzone da insegnare nelle scuole, l’impareggiabile “Quelli che”. La canzone non ha un canovaccio fisso, a volte si arricchisce di novità. “Quelli che il fascismo è dentro di noi”, “Quelli che la mafia, non ci risulta”, “Quelli che che quando perde il Milan o l’Inter picchiano i figli”, ma soprattutto “Quelli che l’ha detto il telegiornale”. Ripetuto con tonalità più alta: “L’ha detto il telegiornale”.
Chi spiega meglio di questa apparente battuta il conformismo e il pensiero unico di una società di massa, disinformata? Enzo aveva già ironizzato in milanese “La televisiun la gà una forsa de leun”.

Infine, mi sia consentito ricordare il Jannaci attore, Ne “L’udienza” di quel geniale matto del milanese Marco Ferrerri, Jannacci è un protagonista strabiliante, che riesce a togliere la scena a Ugo Tognazzi. a Michel Piccoli e a un’incantevole Claudia Cardinale. Che posso dire di più se non ringraziarlo per avermi guarito dal “complesso dello stranguglione”, avermi fatto amare la musica e avermi illustrato in modo divertente e disincantato il mondo che ho sempre amato?