«Non sarà un concerto, ma una grande festa popolare». Ambrogio Sparagna, una vita dedicata al recupero e alla valorizzazione della tradizione musicale popolare italiana, sta limando gli ultimi dettagli di quella che definisce “la data più importante della stagione”. Stiamo parlando dello spettacolo inaugurale del Meeting di Rimini 2011 di domani sera, dal titolo “È festa. Musica e parole di un’Italia appassionata”. «Ho voluto prepararlo con una cura particolare – spiega Sparagna a IlSussidiario.net –. Ci sarà dentro tutta la complessità della nostra storia e della nostra vita. I canti sanfedisti e quelli giacobini, i canti garibaldini, quelli sabaudi e quelli legati al brigantaggio. Una storia che si intreccia con quella dei 150 anni dell’Unità d’Italia e che parla tutti i nostri dialetti. Dal milanese al friuliano, fino al piemontese e a quelli del lombardo-veneto, poi giù verso l’abbruzzese, al laziale, al campano, al salentino e al siciliano. Una complessità da vivere come una grande festa, un incontro cioè di persone che vogliono fare un’esperienza di comunione».



Anche il ruolo del pubblico sarà diverso rispetto a quello di un tradizionale concerto?

Certamente, la gente canterà e danzerà con noi. Cercherò di creare con loro un legame particolare, come d’altra parte ho sempre fatto, anche quando dirigevo il Festival della “Notte della Taranta”.
Devo dire che è difficile descrivere cosa si prova quando 150.000 persone diventano un tutt’uno con chi sta sul palco. Forse saremo qualcuno di meno, ma accadrà di nuovo.



E come ha pensato questa festa?

Le assi su cui abbiamo costruito tutto lo spettacolo sono tre: i canti d’amore, i canti di lavoro e i canti religiosi. D’altronde, è su questo che si fonda la tradizione musicale popolare italiana, anche se spesso ce lo dimentichiamo.

Ci spieghi meglio.

In pochi conoscono i tratti comuni della nostra tradizione.
Senza Dante Alighieri, ad esempio, la festa non può avere inizio. Dante infatti è la poesia e l’uomo ne ha bisogno per cantare. Per questo, nelle società che non possedevano l’uso articolato della lettura e della scrittura, si cantavano i suoi versi per “mandarli a memoria”. È quello che mi hanno insegnato gli anziani che ho incontrato nelle diverse regioni d’Italia durante le mie ricerche etnomusicologiche.
Domani sera, per cominciare, proporremo uno strambotto dell’area salentina, Sia benedettu chi fici lu munnu, che guarda caso ha un corrispettivo in ogni regione.

Ma da dove è nata questa sua passione per la musica popolare?



Ho iniziato da giovane negli anni Settanta. C’era fermento e mi interessava conoscere le forme espressive del mio popolo. Mi spingeva una certa “passione sociale”, anche se pian piano mi sono accorto che il popolo era un’altra cosa rispetto a quello che mi stavano raccontando e insegnando.

Cosa intende dire?

L’ideologia di quegli anni raccontava il “popolo” in un certo modo. Veniva in pratica ridotto alla “classe operaia” organizzata dai partiti.
All’epoca conoscevo e sostenevo anch’io questa visione. La realtà che incontravo sul campo però era diversa.

In che senso?

Gli stessi operai che, ad esempio, manifestavano davanti ai cancelli della Fiat di Cassino, li ritrovavo con un altro volto alla Festa della Madonna di Canneto. La teoria non riusciva poi a spiegare il radicamento della tradizione dei canti dei pellegrini o la festa della Madonna di Polsi a San Luca, un luogo ad altissima concentrazione mafiosa.
Continuavo in pratica a trovare segni e indizi ineliminabili che facevano a pugni con una visione ideologica del popolo. Erano però i canti religiosi a tenere insieme le comunità nei momenti più difficili, come l’inizio dell’immigrazione o l’esodo dalle campagne. Vedevo nel popolo reale una fede condivisa e radicata, che “passava” dalla famiglia attraverso l’esperienza del dono.

È alla luce di questo che continua la sua attività di etnomusicologo e musicista?

Certo, continuo a studiare e a suonare la nostra tradizione, senza eliminare quella che viene comunemente chiamata “pietà popolare”.
Per quanto riguarda la ricerca, provengo dalla scuola di Diego Carpitella. Il suo punto di partenza è sempre stato l’incontro con le persone e con le loro storie. Un approccio ancora valido, anche se oggi è un po’ più complicato trovare gli “alberi di canto”.

Cosa significa?

Sono i “portatori” di una tradizione, quelli che nei paesi danno poi vita alle “fiorite di canto”, come le chiamava Béla Bartók.
Vede, i canti sono un modo per conoscere, incontrare e tramandare la storia delle persone. Se lasciamo invece prevalere un approccio accademico o estetico, finiranno per non dirci più nulla.
Vedo comunque un generale ritorno alle “storie minori” e una risposta entusiasta su questo da parte dei giovani.

L’Orchestra Popolare che lei ha fondato e che suonerà domenica sera ne è un esempio? 

Direi di sì. Ci sono molti musicisti di 23-24 anni, magari diplomati in strumenti classici, che però suonano la zampogna, l’organetto o la ciaramella. Tutto ciò è possibile perché sul territorio c’è qualcuno che sta dando valore alla loro riscoperta.
Per quanto mi riguarda, io metto al centro la poesia cantata. La musica infatti è un sostegno alla poesia, il vero volano della comunicazione.
Questi sono gli insegnamenti ricevuti dalla gente semplice che ha contribuito alla mia formazione culturale. Un bagaglio che sono contento di mettere a disposizione del Meeting di Rimini.

Per quale motivo?

Perché è una delle mie più belle scoperte degli ultimi anni.
In una società come quella di oggi, in cui ormai ogni uomo è un’isola e vive per sé, penso che l’idea di “incontro” che il Meeting propone a tutti sia davvero rivoluzionaria.

(Carlo Melato)

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