«L’uomo non può vivere senza una certezza sul proprio destino “solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”». La scultorea definizione che Benedetto XVI ha regalato al Meeting di Rimini quest’anno nel suo messaggio di saluto costituisce per me il miglior viatico alla presentazione di un’opera musicale che sulla certezza si fonda, di certezza si sostanzia fino a divenire riflessione sui cardini della fede cristiana: Fede, Speranza e Carità.



Sto parlando del monumentale Canticum Sacrum ad honorem Sancti Marci Nominis di Igor Stravinsky. La pagina, dedicata espressamente alla città di Venezia, è una delle vette della produzione (non solo sacra) del compositore russo ed è nel contempo un atto d’amore dell’Autore verso la sede del suo ultimo soggiorno (Stravinsky ha voluto essere sepolto nell’isola di S. Michele), nonché testimonianza di una fede profonda e vivificante.



Architettonicamente la composizione (per due solisti, coro e orchestra di fiati con l’aggiunta di organo, arpa, viole e contrabbassi) è modellata sulla pianta della Basilica di San Marco (sede, nel 1955 della prima esecuzione, diretta dallo stesso Autore): cinque parti (precedute da una brevissima Dedicatio) come cinque sono le cupole della sede patriarcale; sezione centrale più estesa (la cupola centrale è la più grande) e avente come argomento le tre virtù cardinali (i mosaici della cupola centrale mostrano analogamente Cristo attorniato dalle Virtù).

Infine, la scansione interna del Canticum Sacrum segue uno schema con asse di simmetria centrale, essendo l’ultimo brano la rilettura retrograda (ovvero partendo dall’ultima nota e arrivando alla prima) quasi esatta del primo ed essendo il secondo e quarto numero affidati al medesimo organico, ovvero a un solista vocale. La tripartizione interna del brano centrale è poi il coronat opus di questa piattaforma simbolica giocata tra lo spazio (architettura) e il tempo (musica).



Una prima, profonda affermazione sulla certezza stravinskyana proviene proprio da questi dati macroformali e analogici. Poggiare su una tradizione, affidarsi al simbolo (che, in quanto rimando ad altro da sé presuppone l’esistenza di termine che chiuda il circolo simbolico) è già un segno di assenso al reale (come avrebbe detto Newman), una posizione pregressa di apertura e di fiducia nei confronti dell’esistente e della possibilità di costruire su di esso. In fondo ogni opera d’arte (anche la più lacerata e drammatica) è implicitamente l’affermazione di un ultimo giudizio sulla realtà grazie al quale c’è qualcosa (confuso quanto si vuole) per cui valga la pena di immergersi nella fatica della creazione.

È chiaro che tra il gioco affermato come ultima sostanza da tanta musica odierna e l’opera di Stravinsky esistono non poche differenze, ma queste vanno focalizzate soprattutto (anche se non solamente) sulla volontà (e, non va dimenticato, sulla capacità) di dire l’essenziale che il Maestro russo ha avuto e che oggi, ammesso e non concesso che venga compreso il significato di tale affermazione, non viene nemmeno preso in considerazione. Iniziando dunque il nostro piccolo viaggio nel cuore della pagina incontriamo prima di tutto una sorta di epigrafe ante rem, la già citata Dedicatio che è un omaggio alla città lagunare (e al suo patrono) sia nel testo che nelle allusioni musicali a un passato glorioso (la scuola veneziana dei Gabrieli ed ancor prima l’organum medioevale).

La prima vera sezione del brano utilizza, eloquentemente, come testo una parte del finale del vangelo di Marco “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”: un inizio che è già certezza della meta e, nel contempo, invito a un cambiamento della percezione e del valore di sé (come ha detto il prof. Esposito nel suo magistrale intervento, il concetto teleologico di storia compare col cristianesimo). Io valgo tanto che mi è affidata la responsabilità dell’annuncio del senso del mondo. L’intonazione stravinskyana del testo è da manuale: l’ardore apostolico dell’annuncio (coro), gli echi quasi guerreschi dell’orchestra d’armonia che con i suoi continui ribattuti sembra mimare le difficoltà e le asperità che il popolo cristiano dovrà affrontare perché la Verità possa abbracciare tutto il mondo e, soprattutto, i diafani intermezzi organistici che, con gesto di sublime semplicità, sembrano alludere a un’altra mano che “operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (Mc 16, 20).

 

 

Il successivo Surge aquilo (affidato al tenore con accompagnamento di un ensemble cameristico) è un quadro di struggente bellezza che evoca immagini di primaverile letizia e di paradisiaca convivialità. Il testo (preso dal IV e V capitolo del Cantico dei Cantici) innesca un percorso aereo, floreale in cui la frastagliata linea vocale si distende, quasi privata di ogni peso terreno, e ci invita, a raccogliere ora i frutti della certezza (espressa dall’invito alla missione del numero precedente): letizia e pace.

 

Come abbiamo già ricordato, il terzo numero (il più esteso e importante dell’intera partitura) è una meditazione sulle tre Virtù teologali, presentate qui in ordine inverso rispetto al consueto: Carità, Speranza e Fede.

La prima parte di questo trittico (Caritas) costituisce il paradigma dell’intera sezione. Una introduzione solo organistica indicante l’origine divina delle virtù ovvero quella mano misteriosa che l’organo aveva già simboleggiato nel primo numero, introduce un episodio vocale (qui affidato al coro) che in canone, ovvero passandosi la notizia “di bocca in bocca”, enuncia l’“esortazione” alla prima virtù. La scrittura è frastagliata e fortemente dissonante (come peraltro in molta parte del Canticum Sacrum) e si erge come sfida all’ascoltatore e invito a non aver paura delle cose “grandi” che talvolta appaiono difficili. È in definitiva un invito (che mi piacerebbe fosse accolto con entusiasmo) a non spaventarsi di quanto è inconsueto o imprevedibile perché proprio da lì proviene quella novità che, strappandoci dall’asfissiante routine in cui tutto diventa incolore, può condurre la nostra vita ad una pienezza prima inimmaginabile.

 

 

Spes, seconda parte dell’esortazione alle virtù, prende ugualmente le mosse dal lineare incipit organistico e dipana il suo discorso come una sorta di lode dell’amicizia come cammino condiviso verso l’approdo definitivo della vita. L’intero numero è un concatenarsi di duetti (solistici e corali) vertenti su due testi distinti che si commentano a vicenda. La comunità è qui (Sion, Gerusalemme) il luogo in cui la Grazia di Dio fa sbocciare una speranza che intersechi e sostenga realmente il cammino umano costituendo la chiave di volta di quell’apertura alla possibilità di una risposta alle esigenze ultime dell’uomo di cui si sostanzia la certezza del cammino.

 

Introdotta sempre dall’assolo organistico la terza “esortazione” (Fides) presenta dei tratti peculiari e altamente significativi. Innanzitutto la grandiosa perorazione vocale (costruita quasi interamente su una sola linea melodica che viene affidata all’intero coro) è una potente affermazione dell’unicità della fede (una sola melodia=una sola fede), mentre le movenze gregorianeggianti permettono di incardinare questa certezza nella linea di una tradizione che diviene così pietra sulla quale costruire il solido edificio del presente. Non di ricalco si tratta, ma di profonda interiorizzazione del passato che diventa restituzione dello stesso in maniera responsabile e nel contempo personale.

 

 

Il successivo Brevis Motus Cantilenae è il corrispettivo speculare dell’episodio solistico affidato al tenore. Anche qui c’è un legame con il brano contiguo (nel Surge aquilo avevamo la prefigurazione della Grazia che precede ogni Carità) e segnatamente con la terza “esortazione”. Il testo marciano scelto è emblematico: l’episodio del padre del giovane epilettico che termina con l’affermazione “Credo Signore, ma tu aiuta la mia incredulità”.

Il disegno vocale del baritono riprende in parte il “motivo della fede” così come era comparso nel numero precedente mentre gli inserti corali si collocano nella prospettiva dell’universalizzazione del messaggio, divenendo quasi invito ad una personale immedesimazione con la capitale domanda del protagonista dell’episodio.

 

La conclusione, che riprende il primo numero della partitura, dà piena espressione a quell’implicito che avevamo evidenziato commentando il brano “gemello”. Il testo infatti descrive esattamente la conferma divina della predicazione evangelica. È l’espressione della certezza ultima, del fatto che tutta la fragilità umana non può costituire obiezione perché dopo l’Incarnazione e la Risurrezione il mondo è pervaso dalla potenza dello Spirito che rende possibile ogni cosa, anche uell’”impossibile” certezza che è l’unica risposta reale alle inesauste domande che affollano ogni istante del quotidiano.

Per concludere questo percorso propongo ai lettori alcune scarne, commoventi affermazioni di William Congdon, grande pittore statunitense che fu intimo amico di Stravinsky:

“Il primo pezzo eseguito dopo la sua [di Stravinsky N.d.R.] morte fu la Messa. Quando Craft [direttore dell’esecuzione e discepolo di Stravinsky N.d.R.] nel Credo sentì la parola « resurrexit » fu invaso e colpito da una gioia così grande che è impossibile spiegare; questa esperienza ha cambiato la sua vita. Dio già si serviva di Stravinsky. C’era la presenza dell’opera di Dio nell’anima di Stravinsky. […] Stravinsky è stato fedele al dono ricevuto.”

 

DEDICATIO

 

Urbi Venitiae, in laude Sancti sui Presidis, Beati Marci Apostoli

 

I

 

Euntes in mundum universum praedicate evangelium omni creaturae

 

II

 

Surge aquilo et veni auster perfla hortum meum et fluant aromata illius

Veniat dilectus meus in hortum suum et comedat fructum pomorum suorum veni in hortum meum soror mea sponsa messui murram meam cum aromatibus meis comedi favum cum melle meo bibi vinum meum cum lacte meo comedite amici bibite et inebriamini carissimi

 

III

Caritas

 

Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota fortitudine tua

 

Diligamus nos invicem, quia charitas ex Deo est; et omnis qui diligit ex Deo natus est et cognoscit Deum

 

Spes

 

Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion: non commovebitur in Aeternum, qui habitat in Jerusalem.

Sustinuit anima mea in verbum eius speravit anima mea in Domino a custodia matutina usque ad noctem

Fides

 

Credidi propter quod locutus sum ego autem humiliatus sum nimis

 

IV

 

Jesus autem ait illi: Si potes credere omnia possibilia sunt credenti. Et continuo exclamans pater pueri cum lacrimis aiebat: Credo Domine: adjuva incredulitatem meam

 

V

 

Illi autem profecti praedicaverunt ubique, Domino cooperante et sermonem confirmante, sequentibus signis. Amen

 

DEDICA

 

Alla città di Venezia, a lode del suo Santo Patrono, Beato Apostolo Marco

 

I

 

Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.

 

II

 

Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni,
soffia nel mio giardino
si effondano i suoi aromi.
Venga il mio diletto nel suo giardino
e ne mangi i frutti squisiti.

Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa,
e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo;
mangio il mio favo e il mio miele,
bevo il mio vino e il mio latte.
Mangiate, amici, bevete;
inebriatevi, o cari.

 

III

 

CARITA’

 

Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.

Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.

 

SPERANZA

 

Chi confida nel Signore è come il monte Sion:
non vacilla, è stabile per sempre.

 

 

FEDE

 

Ho creduto anche quando dicevo:
“Sono troppo infelice”.

 

IV

 

 

Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”.
Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”.

 

V

 

Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano. Amen