Quattrocento anni dalla sua scomparsa (27 agosto 1611). Per molti, il più grande compositore spagnolo di tutti i tempi. Una fulminante carriera trascorsa sull’asse Roma-Madrid. Messe, Mottetti, Inni, capolavori corali.
Un protagonista assoluto, in un’Europa attraversata da cambiamenti epocali. Figura sfuggente e insieme carismatica, Tomás Luis de Victoria, sincero, devoto, sempre misterioso. Vive nell’ombra, ma s’impone per originalità e autorevolezza.



Rifiuta ritratti, sdegna la fama, concentra la sua produzione al solo ambito sacro. Licenzia un corpus ridottissimo di lavori. Frequenti edizioni delle sue opere, insolitamente lussuose, stampate in gran quantità, inviate perfino alle chiese delle Indie Occidentali (Perù compreso). L’amicizia, la stima, la totale consonanza con San Filippo Neri; lo studio con Palestrina (ma la congettura non è mai stata suffragata dai documenti). La meravigliosa insolenza della sua preghiera. Un ininterrotto movimento di ascesi.



“De Victoria raggiunge una spettacolare autonomia delle parti – spiega il musicologo bresciano Francesco Gatta – Nella sua produzione la parola è il centro di ogni espressione. Ogni linea è bella, perfetta, con una mai più raggiunta ideale aderenza alla parola. Intrecciandosi con le altre voci produce un amalgama prezioso: un intreccio funzionante di per sé, che funziona ancor meglio nell’insieme”.

Un senso di polvere e di miracolo, di peccato e di gloria, grava sulla sua musica. Severità, ascetismo, rigore, come dipingeva il teorico rinascimentale Gaffurio: “I musicisti iberici amano il raccoglimento, l’abbandono, l’atmosfera triste”. Allora cos’è quell’opulenza sonora? Quella febbre divorante che abita i suoi spartiti come già le coeve tele di El Greco? Che significa quel debordare di suoni tridimensionali e accoglienti, tanto sensuali da ricordare l’estasi mistica della sua conterranea S. Teresa d’Avila scolpita del Bernini: occhi rivolti al cielo, testa rovesciata all’indietro, labbra dischiuse, braccia spalancate, cosce divaricate, come nella più lussuriosa delle posture?



Lo conferma Laura Crescini, cantante e direttore dei Cantores ad Nives: “L’intensità di de Victoria è davvero speciale, rasenta un sentire passionale attualissimo”. Così ci dice Daniele Filippi, il più autorevole studioso italiano del maestro castigliano: “In de Victoria emerge dal senso vivo del colore armonico, dalla tensione melodica, dal suo amore per le forme brevi e incisive, dai gusto dei contrasti perfettamente organizzati”.

C’entrano la gialla tavola dell’altopiano spagnolo, le fiammate di sole accecante che bucano le finestre ma non sanno allontanare dalle case un gelo secolare? Ancora Filippi: “La sua originalità è ancora tutta da scoprire. E’ un autore moderno. Veste la parola liturgica di stili sonori sempre nuovi. Padroneggia un finissimo linguaggio contrappuntistico. Esplora mille possibilità di scrittura: ora accompagna variamente una stupenda ed intensa melodia per la voce superiore; ora, nelle opere policorali, contrappone episodi imitativi limitati a poche sezioni a grandi masse sonore, con effetti di orchestrazione altamente espressivi e soluzioni formali altamente avanzate”.

Nei quartieri della vecchia Madrid, in una piccola piazza, s’innalza il Monasterio de las Descalzas Reales, il convento femminile francescano dove si era ritirata l’imperatrice madre Maria d’Asburgo, figlia di Carlo V. Qui, negli ultimi anni della sua vita, Tomás Luis svolse funzioni di cappellano e organista.
In quel silenzio eloquente, abitato dalla presenza di Dio, della Vergine e dei Santi, volle essere seppellito. In linea con l’onnipresente dedica delle sue composizioni: “A Maria Santissima, Madre di misericordia e a tutti i Santi che regnano con Cristo, al fine di cantarne le lodi nelle feste solenni e di esaltare più soavemente la devozione del popolo fedele”.