La tarda produzione di Liszt è apparentemente segnata da una duplice cifra espressiva. Da un lato abbiamo il coté “sacro” (rappresentato da un importante numero di brani) e dall’altro una serie di pezzi legati da un filo ideale più tenue (vedi la Bagatelle sans tonalité e la Lugubre gondola n.2) rappresentato, almeno in parte, da una riflessione sugli aspetti più cupi dell’esistenza.



La complementarità dei due simbolici versanti del tardo stile lisztiano appare evidente. In Liszt i misteri cristiani costituiscono la testimonianza di una speranza che, per non essere vuota alienazione dalle reali circostanze della vita, deve potersi confrontare con la depressione, col dramma, con l’ombra angosciante dell’assurdo e addirittura con l’orrore che ne deriva.



Per fare questo bisogna, secondo il compositore, eliminare tutto il superfluo e, nella spoliazione da ogni inutile orpello, focalizzarsi sull’essenziale.
In questo senso uno dei vertici assoluti dell’ultima produzione lisztiana è Nuages gris (nuvole grigie), una breve, folgorante pagina d’album che, al di là e al di sopra dell’apparente contenuto pre-impressionista, mette in luce una possibile convergenza tra i due percorsi del compositore ungherese.

Le circostanze biografiche al momento della stesura (1881) ci parlano di un momento esistenziale segnato da importanti problemi di salute e da un conseguente frequente stato depressivo. A dispetto di ogni biografismo però vedremo come Liszt sappia infondere nella sua musica altri e più profondi significati.



Il brano si apre dunque su una scarna melodia (senza accompagnamento) di singolare semplicità.  La musica procede in maniera monocorde, disegnando una parabola ascendente-discendente che tanti punti di contatto sembra avere con uno stato di profondo malessere. Pare di udire, tra le note, l’eco di Spleen IV di Baudelaire: “Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio/ sull’anima che geme in preda alla lunga noia”.

Eppure quello che emerge da questo enigmatico incipit non è solo l’immagine di un mondo privo di ogni significato. A un’analisi più accurata, confrontando le figure musicali con passaggi simili di altre opere lisztiane del medesimo periodo, possiamo infatti scoprire alcune eloquenti caratteristiche.

Il “cuore” del motivo iniziale (do# – re – sib) è, in Liszt ma non solo, una figura “della croce” ovvero un disegno che, per la sua intrinseca struttura (una nota centrale “crocifissa” da due note adiacenti: in questo caso il do# – perno – “inchiodato” da re e sib), rappresenta simbolicamente la Passione di Cristo (nella Via Crucis del 1879 troviamo letteralmente un profluvio di figure simili).
Se a questo aggiungiamo poi che la linea del basso è costituita, quando presente, dalle note sib e la e che queste distano tra loro un semitono, intervallo da sempre associato musicalmente a dolore e sofferenza, il quadro è virtualmente completo.

Allora la discesa cromatica di triadi aumentate [0:51] si staglia nell’insieme come dolente ripiegarsi del Crocefisso, come immagine del Suo farsi “minimo” nella sofferenza per divenire compagno di ogni uomo in qualunque circostanza.

André Laplante, pianoforte

Dopo la riproposizione (nella tenebrosa regione grave del pianoforte) del motivo “della croce” [1:30] assistiamo alla trasformazione della sequenza di apertura in uno scheletrico “duetto” [1:50] che sfocia, senza soluzione di continuità, in un’arcana salita cromatica [2:25], sorretta da una variante dell’episodio già sentito a 0:51, che sembra spegnersi in immateriali altezze…

Quando tutto pare esaurito (la sofferenza e, con lei, la speranza) due arcani, luminosi rintocchi [3.09] riaprono l’orizzonte facendo filtrare un raggio di luce ultraterrena dalla plumbea coltre di nubi che ricopre l’orizzonte. È un preludio di resurrezione che, con semplice gesto, ci ripete l’antico “Ave Crux, spes unica”, salve o Croce, unica speranza.

Ed è proprio dalla misteriosa plausibilità di questo paradosso che, a noi come a Liszt, viene rivolta la sfida decisiva. È l’inaudita pretesa di Cristo, risuonata di fronte al sepolcro vuoto a Betania, che giunge fino a noi obbligandoci a prendere posizione “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?”.