«Grato m’è il sonno, e più l’esser di sasso/ Mentre che il danno e la vergogna dura,/ Non veder, non sentir m’è gran ventura/ però non mi destar, deh’ – parla basso».
(Michelangelo Buonarroti La Notte)

Nel lungo vagare, tanto reale quanto metaforico, la vita di Franz Liszt ha più volte incrociato l’Italia, da sempre considerata tappa irrinunciabile in qualsiasi percorso di  educazione artistica e umana (vedi, a titolo puramente esemplificativo, Goethe o Stendhal).
Nascono così i due volumi (secondo e terzo della raccolta) degli Années de pélerinage (Anni di pellegrinaggio), capisaldi del concertismo moderno e pagine tra le più alte dell’intera produzione pianistica lisztiana.



Oggi vogliamo occuparci de Il Pensieroso, secondo numero della deuxième annéè della già citata raccolta, opera ispirata direttamente dalla meravigliosa Sagrestia Nuova del Buonarroti.
Il personaggio cui si riferisce il titolo è, nella fattispecie, Lorenzo de’ Medici effigiato in posa “pensosa” (come disse già il Vasari) all’interno del monumento sepolcrale.



Il brano lisztiano sembra dar voce alla muta riflessione della statua intersecandola con la già citata quartina michelangiolesca (originariamente riferita però a una scultura – La Notte – posta sul sepolcro di Giuliano de’ Medici) che viene riportata interamente in esergo sulla partitura.

Pagina parca ed enigmatica quella del compositore ungherese, fatta di lunghe frasi in cui il canto si rapprende su una sola nota, quasi “pietrificato”, totalmente assorto nella meditazione che possiamo immaginare imperniata su questioni capitali.
Ma cosa ci dice davvero il brano lisztiano sull’oggetto della cogitatio michelangiolesca?



Con rara forza icastica Il Pensieroso traccia una parabola altamente eloquente che pare toccare le problematiche ultime del nostro essere qui ed ora, del significato stesso della vita umana.
Come? Un’analisi della struttura del brano, letta analogicamente, ci può aiutare a comprendere l’orizzonte di senso in cui si va a collocare la composizione.

Innanzitutto la prima cosa che ci colpisce è il ritmo, lento e tipicamente allusivo a toni da Marcia funebre. Dunque è su qualcosa di definitivo e ineluttabile, come la morte, che il protagonista lisztiano sta riflettendo.
Ad avvalorare questa tesi c’è poi la già citata (letterale) monotonia melodica che, ancora una volta, si fa allegoria di un invalicabile limite: oltre questa nota non è concesso muoversi.

Con gesto folgorante Liszt riesce a mostrare anche il funzionamento del pensiero dialettico che confronta e vaglia differenti opzioni.
Sotto la monocorde melodia vengono infatti posti di volta in volta accordi differenti, quasi a testare la capacità di adattamento del pensare stesso alle diverse circostanze.

Il progressivo innalzamento della tessitura sonora (la nota ripetuta diviene di volta in volta più acuta) parrebbe quindi alludere a una sempre maggior urgenza della questione.
Sembra davvero di poter udire qui un’eco dell’Obermann di Sénancour (già citato da Liszt nella prémière année della raccolta): “Cosa voglio? Chi sono? Cosa domandare alla natura?”.

La sconsolata discesa verso il silenzio che chiude la prima parte della composizione si fa analogon sonoro dello scacco, della sconfitta e anche dell’indomabile bisogno dell’uomo di ricevere una risposta. Il ritmo infatti rimane invariato, segno evidente di un inestirpabile bisogno di certezza.
La partita non è chiusa.

Dopo questa sorta di discesa nell’abisso della melancholia il discorso musicale infatti riprende dall’inizio, ma con alcune significative varianti.
Innanzitutto al posto del “nulla” che accompagnava la melodia dell’esordio ora troviamo un misterioso, ondeggiante disegno di crome che ci indica come una qualche forma di “ground” di terreno solido sia stato almeno intuito.

La marcia funebre procede come all’inizio, ma sfocia in un ulteriore, breve episodio in cui, rimosso il tetragono ritmo puntato, un raggio di triste speranza sembra filtrare.
La coda ritorna ai toni lugubri dell’esordio ma, nella catabasi finale una piccola fiammella, una sorta di obiezione alla vittoria del nulla, sembra ancora accendersi prima del triplice rintocco finale, suggello tanto retoricamente chiaro quanto semanticamente non conclusivo di un brano che resta, virtualmente, una provocazione all’ascoltatore.

Ci può bastare una risposta così? Di fronte al dramma, alla morte, al quotidiano svolgersi, spesso così vuoto di senso, dell’esistenza possiamo accettare che il nulla sia la parola definitiva?

LISZT: Années de pélerinage – Deuxième année – Italie – n.2 Il Pensieroso
Lazar Berman, pianoforte