C’è da giurarci: alla notizia del secondo abbandono (stavolta amichevole) del talentuoso chitarrista John Frusciante, buona parte di critica e pubblico temeva il definitivo tracollo della tatuata band di Hollywood. Me compreso.
Ho iniziato ad ascoltare i peperoncini col seminale Blood, Sugar, Sex, Magik – in diretta, durante l’ultima stagione d’oro del rock, nei ‘90 – e da lì a ritroso. Neanche il tempo di mandarne a memoria i pezzi, che il principale artefice di quel “Sacro Graal” funk-rock sbatté la porta e andò via. Cosa avvenne dopo?
I Red Hot si smarrirono, con quel mostro a due teste dal titolo One Hot Minute: suoni e strati di chitarre alla Jane’s Addiction affossarono il pelvico groove di Flea e compagni, sebbene qualche episodio si salvi. Il fascinoso chitarrista Dave Navarro era perfetto nella sua band madre, ma per sostituire John Frusciante? Sappiamo tutti quali (bellissime) risposte ci diede poi la loro storia.
Come può, quindi, questo Josh Klinghoffer prenderne il posto? Può, perché non gioca a fare il clone del chitarrista reso celebre in Italia dallo scrittore Enrico Brizzi. Quando ci casca, invece, come – ahimè – all’inizio di Etiophia, i risultati chitarristici sono un po’ stucchevoli: forse se ne accorge e vira subito verso uno stile etereo, colorato, spumoso, che ricorrerà in tutto il lavoro. Fare paragoni in musica, però, è odioso: perciò, passiamo oltre.
Il decimo album dei losangelini inizia come una jam, simile al warm-up di qualsiasi loro concerto. Neanche il tempo di drizzare le orecchie, nel sentire l’effettatissima voce robotica di Anthony Kiedis, che la stessa diventa una piacevole e fresca melodia su una base disco-funky cara ai ’70 di Donna Summer: Monarchy of Roses, nel cui finale il nuovo chitarrista si presenta stilisticamente. Chi segue da vicino le vicende dei Peppers, sa già che Josh gravitava attorno al loro mondo sin dal rientro nella band di Frusciante: dello stesso è stato, infatti, collaboratore fisso nella prolifica carriera solista che ha portato via John dai Red Hot. Inoltre, chi ha visto l’adrenalinico DVD Off The Map – resoconto del trionfale tour di Californication – avrà notato un giovanissimo Klinghoffer aggirarsi nel backstage della band. 


Factory of Faith
inizia e, a parte il rimbalzante basso di Flea e le spirituali parole di Anthony, pare deboluccia: invece arriva Josh e, con un intermezzo post-punk di grande effetto, continua a tenere alto il coinvolgimento dell’ascoltatore. La chitarra acustica introduce Brendan’s Death Song, che palesa la definitiva evoluzione di Kiedis da urlatore, a rapper, a cantante emozionale: tale è, infatti, il pathos del pezzo – dedicato all’amico scomparso Brendan Mullen, figura chiave della scena losangelina negli anni ’80 e mentore dei primi Red Hot – che il ritornello ha il sapore di certe ballate intimiste del periodo grunge. In aggiunta ad Etiophia, invece, va detto che è davvero “africana” nel tribalismo ritmico e nel canto sfilacciato di Anthony.
Lo squillante basso di Flea apre la strada al ritmo sincopato del muscoloso Chad Smith, seguito a ruota da un Josh che qui, in Annie Wants a Baby, riesce a trovare la misura fra il suono dei Peppers che fu e quello che, forse, sarà. Le liriche – come in tutto l’album – sono popolate da personaggi dall’umana vulnerabilità, da squarci oscuri figli degli anfratti di vita di Kiedis e da risvolti positivi e carichi di luce. Look Around riprende col funk bagnato di seventies, ma con un sapore caro ai Talking Heads meno cervellotici: se si cerca un’evoluzione del gruppo, nel disco, allora parte proprio da questi solchi.
Il singolo apripista, come tale, ha un refrain immediatamente identificabile: sono i Red Hot Chili Peppers. Ciò che colpisce in The Adventures of Rain Dance Maggie è, però, la strofa: un tipo di incedere in qualche modo nuovo per la band. La tromba di Flea, che – nei cinque anni fra Stadium Arcadium e quest’ultimo album – è tornato a studiare musica al conservatorio, salva Did You Let Know, non certo l’episodio migliore della raccolta, sebbene abbia il brio di certa musica latina. Goodbye Hooray è una scheggia, con una chitarra da ricordare e un’apertura psichedelica del tutto inedita per i Peperoncini.
Il piano (!) di Flea, molto anni ’60, introduce Happiness Loves Company: i Red Hot in salsa Brit-pop. Police Station pare ricondurre alle amare disavventure esistenziali di Kiedis, narrate in modo crudo nella sua autobiografia Scar Tissue, presto trasposta sugli schermi americani: l’intermezzo dominato dal piano è una vera chicca, per il resto è uno dei pezzi più dolci del quartetto. Even You Brutus – ancora col piano sugli scudi – ondeggia fra i Supertramp e gli Eagles, ma con l’inconfondibile voce di Anthony a riportare tutto in carreggiata. Anche qui lo special strumentale è affidato al piano.
Meet Me At The Corner
ha l’odore delle strade di Los Angeles, quelle del tipico immaginario caro al cantante, per il resto è delicata e impreziosita dagli squisiti fraseggi di Josh, che sfociano in un nuovo tuffo nella psichedelia, altra cifra che il gruppo aggiunge a sé con I’m With You. Dance, Dance, Dance parte con una base degna del miglior hip-hop stradaiolo, tanto caro a Flea, poi s’evolve romantica.

Il viaggio finisce e l’impressione è quella di un lavoro in parte convincente, se si tiene conto del recente innesto del nuovo elemento in un ruolo delicato e decisivo come quello del chitarrista (un vero problema per la band, che ne ha visti avvicendarsi ben cinque, contando solo quelli ufficiali comparsi nella loro discografia).
Se i Red Hot Chili Peppers avessero seguito l’ispirazione dei pezzi più funk-dance e freschi, o di quelli aperti a sonorità prima inedite al gruppo (con quel po’ di neo-psichedelia sparsa qua e là per pochi attimi), mettendo da parte certi manierismi mainstream che fanno capolino nel disco, allora avremmo parlato di un altro asso nella carriera dei Peperoncini. Ma chiedere ad una band – che ormai è un brand – di spiazzare totalmente milioni di fan assuefatti al loro tipico sound, e già scossi dalla partenza del suo fautore più convinto, forse sarebbe stato davvero troppo.

(Giuseppe Ciotta)