“La leggenda del Grande Inquisitore” di Fédor Dostoesvky è, a distanza di oltre un secolo e mezzo da quando è stata scritta in uno dei capitoli de “I Fratelli Karamazov”, uno dei testi non solamente più citati, ma anche più frequentemente utilizzati per altre forme di espressione artistica.
I meno giovani ricorderanno il bel dramma trattone da Diego Fabbri, a lungo al Teatro della Cometa a Roma e spesso rappresentato al Festival di teatro “dello spirito” sul sagrato della Cattedrale di San Miniato.
Un’altra drammatizzazione, tra i tanti che si potrebbero citare, è stata messa in scena da Peter Brook e ha avuto grande successo a Parigi, Londra e New York. Il testo, pur se squisitamente religioso, ha avuto numerose interpretazioni in teatro in musica. Solamente pochi mesi fa a Palermo c’è stata la prima italiana di “A Greek Passion” di Bohuslav Martin, opera tratta da un romanzo di Nikos Kazantzakis a sua volta ispirata dal testo di Dostoevsky.
In un convegno scientifico all’università di Torino, Gustavo Zagrebelsky, ha sottolineato come le sue domande ci incalzano sempre da molto vicino: “La trama è ricca di fili intrecciati: la libertà di fronte al bene e al male, la libertà come benedizione o come maledizione, il nichilismo e la violenza; la felicità e l’infelicità degli essere umani; il significato della vita e il suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato, la relazione e l’ateismo, il cristianesimo nella versione cattolico-romana e il socialismo visti ambedue come strumento di livellamento delle coscienze e di livellamento della società”. Il dibattito suscitato di recente dal saggio “L’umiltà del male” di Franco Cassano dimostra come “La leggenda del Grande Inquisitore sia di grande attualità ancora oggi in Italia,
Si presentava, quindi, come un approdo naturale per Alessandro Solbiati, compositore cinquantenne particolarmente sensibile alle tematiche spirituali, che si era già rivolto alla letteratura russa a “Il carro ed i canti” tratto dal “Festino in tempo di peste” di Alexander Puskin per la sua prima opera lirica.
“La leggenda” (è questo lo scarno titolo del lavoro), la cui prima esecuzione mondiale ha avuto luogo al Teatro Carignano di Torino, nasce nell’ambito del MiTo. E’ una buona idea che il festival autunnale che collega Milano e Torino prenda la prassi di commissionare opere a compositori italiani, specialmente in un momento in cui lavori per la scena di Oscar Bianchi e Luca Felicioni (per non citare che i più noti) hanno grande successo in teatri europei, pur se vengono tenuti a distanza dai sovrintendenti di teatri d’opera italiani.
L’opera è un atto unico di novanta minuti circa. Il libretto sintetizza efficacemente il testo in un prologo e quattro quadri (l’ultimo è in effetti un breve epilogo) che spaziano nel tempo e nei luoghi: la Russia di fine Ottocento dove Ivan e Alessio discutono della leggenda, la piazza principale di Siviglia nel Cinquecento, un carcere claustrofobico, il deserto. L’aspetto scenico è suggestivo: un impianto unico con una vasca d’acqua sul proscenio e un grande fondale che, con una passerella può essere adattato a vari ambienti.
Non manca azione, per quanto il libretto sia simile a un oratorio (il personaggio principale , Gesù tornato in terra, non parla e non canta) dato che la parte centrale è il lungo monologo dell’Inquisitore (il baritono Urban Malmberg) alla cui voce grave si giustappongono gli interventi di Alda Caiello (Alessio) e l’intensa preghiera di Laura Catrani (La Madre). Efficaci ma in ruoli minori il tenore Mark Milhofer (Ivan) e il basso Gianluca Buratto (Lo Spirito del Non-Essere).
La scrittura vocale tende al declamato e allo Sprechgesang. Il vero protagonista è l’orchestra (anzi le orchestre) affidate a Gianandrea Noseda. L’organico orchestrale occupa le prime file della platea, i palchi di proscenio e anche la parte sinistra della galleria.
In breve, un organico mahleriano. Ivan e Alessio sono accompagnati dall’Orchestra A, la Siviglia cinquecentesca (cui contribuiscono timbricamente, in scena, chitarra e fisarmonica) e il deserto dalle Orchestre A + B, il carcere da un piccolo gruppo da camera in buca).
In due palchi di proscenio contrapposti si trovano le percussioni, in un altro la celesta. Nel deserto riverbera la voce dello Spirito del Non Essere e nel carcere l’Inquisitore è reso polifonico da un sestetto vocale. La scrittura molto timbrica sembra riflettere più lo spirito di Darmstadt che quello dell’Ircam. E’ comunque personalissima e affascinante – il maggior elemento di successo alla prima. Pone, però, un problema: è un’operazione replicabile a ragione dei costi che tale impianto orchestrale implica e delle ristrettezze che devono affrontare tutte le fondazioni liriche italiane e straniere?