«All’inizio era un fiume. Si è aperto in un delta. È sfociato nell’oceano». La metafora di John Cage sulla musica americana descrive bene l’immensa distesa di suoni e di volti che ci investe, fino quasi a travolgerci, nello sfogliare il libro “Musica per pianoforte degli Stati Uniti”, scritto da Emanuele Arciuli. Vi trovano spazio autori famosi come Ives, Gershwin, Bernstein, insieme a moltissimi altri poco noti (o del tutto sconosciuti), puntualmente analizzati nella loro produzione pianistica.



Giudizi equilibrati, profondi, liberi. George Antheil è il “classico rivoluzionario che al comparire dei primi capelli grigi passa dall’altra parte della barricata”. Roger Session è il “prototipo del compositore universitario, rigoroso, coerente, immerso in un mondo autoreferenziale che trova nel fervore analitico un surrogato o una sublimazione del mero godimento estetico”. L’opera di Vincent Persichetti ricorda “le foto ingiallite del liceo, nelle quali cerchiamo di riconoscere i vecchi compagni”. Il post-minimalismo “dà un senso di melanconia, alienazione, disagio”.



Il volume segue un ordine cronologico; ogni capitolo si chiude con un’intervista a un importante pianista americano. Negli Stati Uniti la musica vive di eccessi, oscilla tra accademia, funzionalità, spregiudicatezza, senso religioso. Rischia, scade nel banale, si confronta col mercato, accontenta le mode, brama il nuovo. Domina una sensazione di vitalità, come radici che si espandono. «Ma nemmeno gli Usa sono un’isola felice – puntualizza Arciuli, pianista di spicco – anche lì la crisi economica pesa. La musica contemporanea vive solo in poche grandi città e in alcune università».



Il piacere dell’inedito e il lato ludico, l’esperimento bizzarro e lo sdrucciolevole territorio della modernità fanno irruzione a ogni paragrafo. Ci sentiamo comandanti che avvistano le coste di un continente inesplorato. Dalla tolda scorgiamo Henry Cowell intento a pestare la tastiera con pugni e gomiti, inventore di un “pianoforte girevole” e di un oscuro “rhytmicon”. Scopriamo il musicista navajo Raven Chacon che ausculta ciò che il piano produce da sé (agendo su tasti silenziosamente abbassati e pedale di risonanza, e amplificando le vibrazioni provocate dall’ambiente). 

Sorridiamo alle provocazioni di La Monte Young (“spingere con la massima forza il pianoforte contro il muro, finché il pianista sia esausto”, in “Piano Piece for Terry Riley”) o agli happening di Charles Martin che durante i suoi “concerti” fuma sigari, beve cognac, addobba lo strumento con animaletti di peluche. Ci lascia perplessi Annea Lockwood, quando in “Piano Burning” chiede di bruciare un verticale con microfoni che trasmettano gli stridori del rogo.

Ci incuriosisce la “Fantasia” di Jed Distler, che osa riassumere in un minuto le trentadue Sonate di Beethoven. E che dire del brano “Love Conception” di Daniel Lentz, in cui una coppia deve salire sul pianoforte e lì fare l’amore? La galleria degli orrori è lunga: piedi pestati sul pavimento, schiocchi di lingua, parlati, unghiate sulla cordiera, baci nocche carezze schiaffi sulla tavola armonica. Un inesausto corpo a corpo col nero mostro a tre gambe. I compositori statunitensi hanno tolto l’aura al pianoforte per giocare e ironizzare: cos’è tutta questa disinibizione?

“Negli Usa sono liberi dal peso della nostra tradizione europea. Ma la differenza maggiore fra i due mondi consiste nella vocazione al racconto, alla dimensione narrativa, al viaggio, che permea la loro cultura. In Italia, e in Europa, vi è una più marcata tendenza all’analisi e alla riflessione sui parametri, una vocazione metalinguistica”. Come rinnovarsi? “Abbandonarsi al corso naturale delle cose. Siamo in una fase di transizione, in un “post-tutto” che non potrà proseguire in eterno”. Sospira Arciuli, aggrotta la fronte, risoluto e speranzoso, come in una vera storia d’amore. Una storia che può ancora ricominciare.