Se c’è un nome che oggi sa mettere d’accordo gli appassionati di Jazz, al di là dei gusti e delle preferenze personali, è quello di Miles Davis. L’indimenticabile trombettista, nato nel 1926 ad Alton (Illinois), ci lasciava esattamente 20 anni fa dopo una vita all’avanguardia. Ma cosa resta della sua fuga nel futuro, della sua vita artistica tra maestri e detrattori? Che fine hanno fatto i suoi compagni di viaggio e i suoi imitatori? Lo abbiamo chiesto a Stefano Zenni, musicologo e presidente della Società Italiana di Musicologia Afroamericana (SIdMA). «A distanza di anni, emergono innanzitutto delle conferme – dice Zenni a IlSussidiario.net –. La prima riguarda l’enorme influenza che Davis ha avuto come solista, peraltro già evidente a cominciare dagli anni Settanta. Ancora oggi, infatti, Miles rimane un punto di riferimento centrale per qualsiasi trombettista jazz. Uno degli insegnamenti principali che ci ha lasciato è stata la capacità di costruire assoli complessi attraverso materiali semplici. Un esito opposto rispetto alla lezione del suo maestro, Dizzy Gillespie, e a quella di Louis Armstrong, che procedevano invece per accumulo di idee e materiali. Penso che questa, al di là del suo lirismo e della sua capacità di introspezione, sia stata davvero una dimostrazione di forza e visionarietà».
E sotto quale altra veste ha saputo lasciare il segno?
Nell’ultimo decennio è stata approfondita la sua grandezza come leader. Un aspetto forse ancora più importante rispetto a ciò che dicevamo prima. Non era infatti soltanto una guida per i gruppi che formava, ma sapeva costruire il sound che gli interessava scegliendo magistralmente i solisti e rielaborando gli spunti e i materiali che questi gli potevano dare.
Un esempio? “In A Silent Way”, nelle intenzioni del suo compositore, Joe Zawinul, sarebbe dovuta diventare una bossa nova. Davis però sapeva intuire un universo di possibilità dietro a tutto ciò che gli capitava davanti. E basta riascoltare questo disco capitale per accorgersi del risultato.
Cosa dire invece del suo suono inconfondibile?
Sembrerà banale, ma Miles Davis è stato uno dei musicisti più riconoscibili e, paradossalmente, più imitati della storia del Jazz. Chi prova a farlo, del resto, corre il rischio di perdere la propria identità. Non a caso oggi si possono ascoltare moltissimi trombettisti ispirati da Armstrong, ma diversi dall’originale, e altrettanti musicisti ispirati da Davis, che però cercano di suonare come Miles. D’altra parte è innegabile che un certo tipo di suono l’abbia inventato lui.
In che modo?
Grazie a una sordina, la Harmon, già in uso negli anni Venti. Intorno al ’55 estrasse il pirolo al centro e costruì un suono inedito, lirico e pungente allo stesso tempo.
A campana aperta, invece, lavorò a un suono pieno, rotondo. Teniamo presente che Davis non era un virtuoso, alla Gillespie o alla Freddie Hubbard. Questo lo costrinse a lavorare molto sul registro medio.
Il risultato fu una rotondità, diversa per intenderci da quella di Chet Baker, che io, personalmente, trovo abbastanza uniforme. Il suono di Davis, invece è rotondo, ma pulsante, mutevole e tridimensionale. La luce cambia di continuo, mantenendo però una pienezza quasi carnale. In pochi lo seguono su questo piano. Molto più facile mettere la sordina…
Miles Davis è stato protagonista di alcune importantissime stagioni del Jazz. Ma in che misura è stato un innovatore e un rivoluzionario?
A mio avviso Davis non ha provocato rivoluzioni musicali. A volte le ha anticipate, altre si è accodato, o ha capito la direzione che la musica stava prendendo. Ogni volta però ci si è buttato dentro, tirando fuori il meglio possibile.
Non è stato, ad esempio, il primo a fare dischi di jazz rock, ma certamente ne ha estratto i frutti sperimentali più fecondi. Non ha inventato il cool jazz, ma quando nel ‘48 si è trovato a capo della Tuba Band ha saputo fare meglio di qualunque altro. Non ha inventato l’hard bop, ma quando nel ‘54 ha inciso “Walkin’” ha saputo dare un contributo importantissimo.
Diciamo che si è sempre saputo trovare al centro delle grandi trasformazioni musicali, dando un contributo originale e il più delle volte decisivo.
Una capacità che hanno avuto in pochi?
Non è da tutti, ma non si può nemmeno parlare di un unicum nella storia del Jazz. Pensiamo ad esempio a John Coltrane, scomparso purtroppo troppo presto. Ma anche oggi qualcuno ha queste qualità. Uno su tutti, Antony Braxton. Da 40 anni inventa nuovi sistemi di interazione tra improvvisazione e scrittura e nuovi sistemi per la gestione dell’improvvisazione di gruppo. È più teorico rispetto a Davis, ma come lui è un instancabile innovatore. Crea dei sistemi, su cui altri potrebbero impostare tutta la loro carriera e poi li abbandona per immaginarne di nuovi.
E in questi vent’anni senza di lui, chi invece ha saputo raccogliere il suo testimone, sviluppando le sue idee?
Devo dire che molti di quelli chi si rifanno esplicitamente a Davis, come Wynton Marsalis o Roy Hargrove, hanno compiuto molti passi indietro rispetto all’originale. Sono musicisti neoclassici che tendono ad adagiarsi su formule conservatrici. E in questo senso non hanno quell’audacia e quella libertà che si poteva sentire nel quintetto di Davis con Wayne Shorter.
Tra i trombettisti, se parliamo di progetto musicale, Dave Douglas è sulla strada giusta. Chi, invece ha portato alle estreme conseguenze la lezione di Davis, mescolandola a quella di Gil Evans e Charles Mingus, è un pianista italiano.
A chi si riferisce?
A Franco D’Andrea. I suoi quartetti funzionano come i gruppi del Davis elettrico. Strutture aperte, segnali sonori e un altissimo grado di interazione. Ascoltare per credere “The Siena Concert” e gli altri suoi ultimi album.
A proposito di dischi e libri. Qual è la discografia e la bibliografia essenziale che consiglia a chi avesse voglia di approfondire?
I dischi fondamentali potrebbero essere: “Birth Of The Coll”, i “gerundi” della Presitge (“Cookin’”, “Relaxin’”, “Workin’”, “Steamin’”), “Kind Of Blue”, “Porgy And Bess” con Gill Evans, “Nefertiti”, “Bitches Brew” e “On The Corner”.
Tra i saggi consiglio: “Bitches Brew” di Enrico Merlin e Venerio Rizzardi (Il Saggiatore) e “Miles Davis. Lo sciamano elettrico” di Gianfranco Salvatore (Stampa Alternativa).
L’autobiografia è molto divertente, ma non molto attendibile. Meglio affiancarci una lettura critica di livello.
(Carlo Melato)