A lanciare la provocazione, in realtà non molto originale, è stato un articolo di Repubblica: il rock è morto. Immediatamente si è scatenato il dibattito a livello nazionale, sui social network e siti vari manco fossimo alle prese con una nuova manovra del governo Monti.
In realtà, vale la pena dirlo anche se in pochi se ne sono accorti, l’articolo faceva riferimento a un pezzo pubblicato a ridosso del Capodanno dal New York Times che introduceva il concetto, però legandosi – come in effetti ha molto più senso – alla realtà musicale americana.
“The year when rock just spun its wheels”, l’anno in cui la musica rock ha bruscamente cambiato direzione. Il quotidiano americano lamentava che nel 2011 non si era assistito a nessun grande disco a opera di gruppi o solisti rock, un universo, si diceva, quello rock, in crisi come nessun altro. L’articolo di Repubblica cavalcava invece il concetto di mancanza dalle classifiche di dischi o singoli rock, a cui verrebbero preferiti Lady Gaga o artisti hip-hop.
Inoltre, a fronte dei nuovi movimenti di protesta come Occupy Wall Street, nessun artista rock era stato in grado di produrre un inno generazionale, chessò una – a caso – nuova Blowin’ in the Wind (che peraltro Bob Dylan non scrisse per alcun movimento particolare, ma solo per se stesso, ma questa è un’altra storia). La musica rock in definitiva si sarebbe ridotta a riciclare se stessa senza più produrre novità esaltanti e di conseguenza verrebbe ignorata dalle masse.
È importante dire che per noi italiani questo è un concetto abbastanza relativo: la musica rock non ha mai fatto sfracelli nelle nostre classifiche, dove invece ha sempre dominato ad esempio – come è giusto che sia per ragioni culturali e di appartenenza storica – la musica melodica di impronta pop. Da Lucio Battisti a Laura Pausini, per intendersi. Ma comunque è un dato di fatto che da tempo non si producono più dischi epocali. Gli stessi grandi di un tempo, dagli Stones a Springsteen a Bob Dylan fanno buon esercizio di professionalità acquisita, ma il tempo dei brani memorabili è finito da molti anni. Il problema però andrebbe analizzato più a fondo, soprattutto per quanto riguarda le giovani leve incapaci di produrre alcunché di memorabile. I Nickelback, ahinoi, non saranno mai paragonabili ai Nirvana e i Blink 182 non saranno mai i nuovi Clash. Perché questo?
È un problema, piuttosto che stilistico, di cuore. La musica rock per sua struttura è estremamente conservatrice, non si tratta di inventarsi sperimentalismi estremi: il progressive che andava in voga negli anni 70 con il suo tentativo di mettere insieme rock e classica, rock e jazz e quant’altro, venne spazzato via da un giorno all’altro da quattro delinquenti che a malapena sapevano accordare un chitarra, i Sex Pistols. Dire che il futuro del rock sta nell’elettronica, come è stato scritto ad esempio da qualcuno in risposta al pezzo di Repubblica, in certe contaminazioni estreme che fanno anche a meno di una chitarra elettrica, è ostinarsi a cercare il nuovo dove il nuovo di fatto non esiste. Se non ci sono allora più grandi canzoni rock (ma chi scrive sostiene il contrario) è perché sono cambiate le persone. Non solo da un punto di vista culturale, ad esempio la differenza che c’è tra i Bob Dylan e i Keith Richards che da ragazzetti passavano le ore a studiarsi a memoria i 78 giri di Robert Johnson piuttosto che a perder tempo sui social network, a chattare o a giocare ai video game, avevano un cuore curioso, appassionato, libero e selvaggio, ansioso di scoprire la realtà che li circondava. L’Elvis che faceva il camionista sognava un futuro enorme. Da re, appunto.
Almeno fino agli anni 70 chi scriveva canzoni lo faceva come se si trattasse di una questione di vita o di morte: salire sul palco, ogni sera, non era per apparire davanti alle telecamere di Mtv o di un talent show, ma ne andava della propria sopravvivenza. La musica rock, scrisse un critico americano, ha dato alle nostre esistenze la possibilità di sfuggire a una realtà insostenibile e di farci desiderare che tutta la vita fosse un sabato sera. Questo a prescindere dal successo commerciale, o peggio, dallo sprofondare attuale nel gossip a ogni costo di siti come Twitter o nella banalità di una trasgressione – Lady Gaga anyone? – che fa ridere anche i bambini dele elementari. Come ha detto una volta Bruce Springsteen: se non avessi avuto il successo che ho avuto, avrei continuato lo stesso a suonare ogni sabato sera nel bar del mio paese.
Il problema della musica rock dunque non sta nella musica rock, ma nel cuore delle persone. La solitudine, la mancanza di alcuna spinta ideale, la banalità, la superficialità, che hanno riempito di chili di nulla i cuori delle ultime generazioni anestetizzandoli e impedendo loro di scrivere una grande canzone rock, è un problema che non centra con la musica rock. Centra con quello che è diventata la nostra vita e con quelli che sono diventati i nostri desideri, anzi il nostro desiderio. Per chi è ancora consapevole di questo. Infatti, esistono ancora grandi canzoni, che non vanno in classifica solo perché la gente non sente più la spinta e il desiderio di comprare un disco rock. Perché dovrebbe farlo? Hanno altro a cui pensare, o non pensare. Ci sarà empre un Grande Fratello a farci passare la voglia di uscire al freddo a vedere se da qualche parte c’è un gruppo rock interessante da ascoltare. Ma se sono finiti quei tempi, in cui, come diceva lo scrittore Greil Marcus, avevi paura di entrare in un negozio di dischi per il timore dei soldi che avresti speso (per la cronaca, il ’67-68 e il ’76-79) vista l’abbondanza di grande musica, le belle canzoni esistono ancora e vanno cercate. Manipoli di giovani con il cuore che batte al posto giusto ci sono sempre. Ci sarà sempre una cantina da qualche parte dove una band di ragazzi sta sognando la più grande canzone di tutti i tempi. La buona musica non ti arriva in una busta sulla porta di casa, la devi cercare.
Un anno fa circa mi trovavo a Londra. Eravamo andati a sentire suonare in un minuscolo localino situato come vuole la miglior tradizione rock in una cantina, una amica che si accompagnava da sola alla chitarra, una splendida serata. Dopo di lei doveva esibirsi una band e nell’intervallo, senza alcuna fretta di ritornare, eravamo andati al ristorante all’angolo a mangiare qualcosa. Ci fermammo più del previsto. Tornati nella cantina, fummo accolti dalla musica. Per alcuni minuti persi completamente il senso dello spazio e del tempo e no, non fu colpa delle molte birre bevute. Quella band, totalmente sconosciuta e che da allora non ho mai più sentito, composta da giovani, stava suonando alcuna della miglior musica rock che avevo mai sentito, e posso dirne di averne sentita tanta da quando, a 17 anni, nel 1979, mi recai al mio primo concerto di un artista americano. Improvvisamente, in quel preciso momento, fu una epifania e ancora una volta accadeva il miracolo che accade solo in rari, ma sempre presenti, momenti: non era più una band che suonava della musica rock, ma era la musica che suonava attraverso di loro.
Quei ragazzi non hanno sfondato, da quello che mi risulta. Non li vedo in classifica da nessuna parte. Ma questo non vuol dire che la musica rock sia morta. Anzi, quella sera essa era accaduta e si era manifestata più eccitante e motivata che mai. Per un momento, il presente era storia e la storia era il presente. Come quando Elvis registrò il suoi primo 45 giri o Keith Richards si svegliò con in testa il riff di Satisfaction. Solo un cuore affamato può imbattersi in momenti come questi che accadono ancora e ancora. E a proposito di classifiche e di bontà della musica attuale, vale sempre la pena di ricordarsi quello che disse qualche anno fa Lou Reed a un intervistatore: anche negli anni 60 c’erano un sacco di canzoni schifose in classifica. E’ vero.