Registrata nel gennaio 1963, pubblicata come singolo Roulette nel 1963 – Erano cantine. Erano localacci malfamati. Puzzolenti e frequentati da ragazze facili, ubriaconi e giocatori d’azzardo, a cui la musica rock interessava fino a un certo punto. Ma c’era anche chi ci andava per ascoltare l’eccitante battito in quattro quarti. Era una rivoluzione sotterranea, e mai underground fu accostabile al concetto stesso di musica rock anche se nessuno capiva cosa stesse succedendo. Di più, era qualcosa che accadeva, contemporaneamente, ai quattro lati del mondo occidentale senza che i protagonisti lo sapessero: una corrente sotterranea, invisibile, accendeva gli spiriti di ragazzotti di malapena vent’anni. Era un richiamo che nessuno sapeva da dove venisse, ma era destinato a cambiare per sempre non solo le loro vite, ma di tutti quelli che stavano attorno. Era una sorta di internazionale del rock, quella che stava accadendo in qui giorni antichi, mossa nessuno sa da che cosa: un grido misterioso, un sentimento comune, un’esigenza insopprimibile, ma qualcosa stava accadendo.



Il risultato? Il mondo non sarebbe stato più uguale a prima nel bene e nel male. Il più grande accadimento della storia del Novecento, e senza nessun spargimento di sangue, per di più. Insieme, da ogni parte del mondo stavano evocando qualcosa di troppo grande per essere ignorato ancora. Dopo, non sarebbe più stato possibile fermarsi: non si possono attaccare al chiodo le proprie scarpe da rock’n’roll, cantava Little Richard.
Nei club di Amburgo, in Germania, dove i Beatles facevano le prove per la più prodigiosa e sconvolgente rivoluzione musicale di sempre; nelle cantine di Liverpool, dove altri come i Beatles erano rimasti a casa, ma non fermi; a Belfast, Irlanda del Nord, tra tensioni indipendentiste e voglia di R&B un ragazzotto che sognava Leadbelly e Ray Charles immaginava di essere un leone e di voler essere ascoltato, Van Morrison; a Berkeley, California, dove John Fogerty cercava le coordinate di una formula sonora che solo lui aveva in mente sognando le paludi della Louisiana che non aveva mai visto in persona. E in Canada, dove quattro canadesi e due americani dell’Arkansas mettevano a punto la più sconvolgente registrazione della seconda ondata del rock’n’roll, purtroppo destinata a essere conosciuta da pochi in tempo reale, perché troppo avanti con i tempi.



Lui, il cantante Ronnie Hawkins si spacciava parente di Bo Diddley e migliore di Elvis. Loro, i ragazzotti che lo accompagnavano, per la loro età a malapena potevano entrare nei locali dove lui li portava a suonare. Ma diavolo se suonavano. Quando, nel gennaio 1963, vanno in studio per incidere appunto una cover di Bo Diddley, sembra che abbiano già capito tutto quanto di quello che deve essere un pezzo rock. Incitati e trascinati dall’animalesco cantante che non sa trattenersi nello sputare un canto indecente e rabbioso, loro letteralmente esplodono in un ritmo irrefrenabile. Il più scatenato è senza dubbio il chitarrista del gruppo, tale Robbie Robertson. Già usa, evidentemente quelle distorsioni che i Kinks devono ancora inventare e che i Led Zeppelin faranno loro. Forse, da qualche parte, le sta già usando un mancino di Seattle, ma i due non si sarebbero incontrati mai, tantomeno in quei giorni di inizio decennio.



Quando il primo assolo parte fuliminante, è come se raffiche di mitragliatore si sventagliassero ovunque nello studio di registrazione, costringendo gli altri musicisti a mettersi al riparo. Piovono dal soffitto, si sfracellano per ogni dove. L’unico che rimane lì in piedi, a fronteggiarlo, è il cantante, che anzi lo incita a fare di più. “Aaaah… aaaaaah… AAAAAAHHH” urla, mentre la musica segue un crescendo fantasmagorico: Robertson di nuovo non può contenersi e la sua chitarra demolisce in poche, serratissime note tutto quanto. E’ il pezzo di rock’n’roll più selvaggio, liberatorio, apocalittico almeno fino a quando John Lennon guiderà gli altri Fab nella corale e definitiva Twist and Shout. Ancora oggi questa incisione rimane a testimonianza di cosa deve essere un puro, autentico brano di rock’n’roll.

Circa tredici anni dopo, poi, questa registrazione ormai diventati la rock band più importante del pianeta, messi pure sulla copertina del prestigioso Time, osannati da pubblico e critica, gli ex ragazzi di Ronnie Hawkins diventati uomini decidono di dare addio al mondo della musica. In una sera passata alla storia come il più grande evento rock del decennio, la sera del Giorno del Ringraziamento (data quanto mai appropriata) del 1976 salgono sul palco ancora una voltae insieme al loro mentore, quel Ronnie Hawkins che viceversa non era diventata per ironia della sorte una star come lo erano invece diventati loro. Ma insieme, ricordando quei gironi antichi, le cantine e i club puzzolenti di provincia, danno vita proprio come allora ancora una volta a quella magia selvaggia, sconvolgente e misteriosa che neppure loro seppero mai spiegare. Fu di nuovo Who Do You Love, e fu sbalorditiva come tredici anni prima. Perché, come diceva un loro collega “il rock’n’roll non mente mai”.

LA VERSIONE DEL 1976 DI WHO DO YOU LOVE