L’orchestra su sei corde. Poesia, luce, nobiltà riconquistate. Udito sottile, mani flessibili, sensibilità finissima. Il Paganini della chitarra. Andrés Segovia è stato questo e molto altro.
Nel 2012 ricorrono i 25 anni della sua morte (2 giugno). Il mito, la leggenda, uno dei pochi chitarristi a essere entrati nell’immaginario collettivo. L’infedele, lo spurio, l’eretico, il trascrit-(tradi-?)tore, per i contestatori. L’autentico maestro, il musicista profeta, la guida illuminata, per chi lo ha incrociato almeno una volta nella vita.
Il forlivese Piero Bonaguri è stato uno dei suoi più brillanti allievi (dal 21 gennaio a Faenza, dal 23 al Conservatorio di Lione, terrà un Seminario chitarristico dedicato alla memoria segoviana). «L’incontro con lui mi ha aiutato a scoprire chi ero. Finalmente mi sentivo libero di non copiare nessuno. Ribadiva spesso: “Non devi cercare di essere il secondo Segovia, ma il primo te stesso. Il mio compito è abbreviare il cammino del discepolo. Io insegno quello che si deve e non si deve fare. L’esecutore nei confronti del pezzo è come Gesù che resuscita Lazzaro: fa tornare alla vita. Il nostro lavoro è una sintesi in continua espansione. L’interpretazione deve essere un’esplosione di libertà”.
Mi invitò a interrogarmi: cosa dicono a te queste note? Mi si aprì un mondo. Fu come liberarsi da un’impalcatura. Cominciavo a usare i miei occhi; vedevo, capivo, reagivo, rischiavo, mi lasciavo colpire personalmente dalla musica che suonavo. Lui osservava rispettoso, rimanendo al di fuori del mio rapporto intimo con il brano, quello che chiamava il “fuoco sacro”: ciò che il maestro non può dare all’allievo. Da quel momento non ho mai smesso di lavorare così. È stata una rivoluzione».
Cosa della sua lezione è ancora attuale? «Mi ha educato a mantenere vivo il nesso con la tradizione, da cui cogliere alcune costanti valide in ogni tempo. Rifiutava il tecnicismo e la ricerca di facili effetti: tutto va posto a servizio dell’espressione, non ricercato come mera esibizione di bravura, e deve tradursi in adeguato gesto strumentale. Ossessiva la sua indicazione: “bisogna intervenire sul pezzo, senza fermarlo”».
Cioè, le dita devono fare esattamente quello che chiedo loro. Affrontare un brano prima lento e forte, poi piano e veloce, per padroneggiarlo completamente; nel rigore, riuscire a lasciarsi andare, infondere un amore; pensare le diteggiature in funzione del fraseggio, della cantabilità, della persuasione; vivere il rapporto con il pubblico come un regalo meraviglioso.



Spiegava infatti: «L’artista non deve mai innamorarsi di se stesso». Stimava il duro studio quotidiano. Diceva: «Se un seme non viene amorosamente coltivato, non crescerà, non diventerà un fiore e poi un frutto». Il lavoro visto come cura amorosa, non pratica ossessiva, meccanica e alienante.
Invitava sempre: «Pensate più alla musica che alla chitarra. Abbandonate la chitarra, ma mai la musica. La chitarra è un’isola, tra le tante altre, mentre la musica è l’oceano».
Un distacco che si può notare perfino nel modo in cui teneva il suo strumento: lo sfiorava appena. Ci ripeteva di non ascoltare prima di tutto i chitarristi, ma gli altri strumentisti. Per lui la chitarra era «un’orchestra vista attraverso un binocolo rovesciato», o, per usare un’altra sua immagine poetica, «una sintesi del bosco».
Che tipo di uomo era? «Generoso, forte, concreto. Ci ha trasmesso un approccio alla vita e all’arte pieno di umanità, di positività. Ci rammentava che i doni che un musicista possiede, per essere fecondi, devono ricevere il calore solare della cultura. Disse anche che “alla fine di tutto rimane la bontà”. Sono le stesse parole di San Paolo: alla fine resterà solo la carità. Con Segovia ho scoperto l’arte come qualcosa che prima non c’era, un inizio sempre nuovo, un farsi sorprendere da una via imprevedibile, inimmaginabile. Ho fatto un’esperienza di giovinezza che venendoti addosso ti segna per sempre. È lo stesso augurio di Charles Péguy: discendere dal maestro per le vie naturali della filiazione, non per le vie scolastiche della discepolanza».



(Enrico Raggi)

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