“Per millenni l’umanità ha riflettuto sul significato della vita. Nel 2012 la risposta è arrivata: benvenuti al nuovo disco dei Foxy Shazam: The Church of rock’n’roll”.
Dementi o sfrontati? Comunque sia è sicuramente di questa band nordamericana dal nome impronunciabile, Foxi Shazam il primo disco sanamente divertente, completamente esauriente e tremendamente rock di questo 2012. Lo dico ben sapendo che questa band dell’Ohio che si presenta con questo incipit che ricorda tanto Douglas Admas, è un così furbissimo patchwork di glam, hard, progressive e punk con spruzzate di eclettismo alla Zappa da lasciar infastiditi e insoddisfatti i vari amanti integralisti di questi singoli generi, se presi in modo solitario e monolitico.
L’insieme, invece, se buttato nel frullatore, funziona da morire, soprattutto (come si diceva una volta) se ascoltato ad alto volume. Nata nel 2004, questa band di supernicchia è un sestetto con tanto di tromba (l’ultima volta che il rock si presentava con un trombettista è stato con i californiani Cake, circa quindici anni fa) che si diverte un mondo a mettere insieme suggestioni e influenze che vanno dai Queen agli Spinal Tap, da Elton John ai Wham, da Marvin Gaye ai Bruce Springsteen.
Prodotta da Justin Hawkins (che era voce e sciagurato frontman dei Darkness), i Fozy Shazam si erano già fatti sentire per un paio di bei singoli, accompagnati da altrettanti buoni video alternative (Unstoppable e Oh Lord) e da una fama di tostissimo live-act. Ora con il nuovo disco, The Church of rock’n’roll, la band potrebbe uscire dall’undeground, perché contiene davvero ampie quantità di ironia, divertimento, belle canzoni e qualità musicale in dosi non usuali. Guidata da un cantante di qualità teatrale notevole, Eric Nelly, e composta da gente che in parte viene da una trafila di conservatorio (il bizzarro pianista Schuyler Vaughn White e il chitarrista Loren Daniel Turner), la band sciorina pezzi da puro applauso: Holy Touch è una Queen-canzone con una voce simil George Michael e un paio di incisi azzeccatissimi; mostruosamente queeniano è anche (It’s Too) Late Baby, capace di un break mozzafiato per una chitarra decisamente vanhaleniana.
Wasted feelings è cantato alla Marvin Gaye, mentre Forever Together è una folk-ballad sulla retorica della band che resterà insieme per tutta la vita; con un sound vicino a quello di Toni Iommi e una voce imparentata con Meat Loaf The Temple è insieme alla title-track il brano più heavy dell’album, dimostrazioni non troppo nascoste di una parentela di gusto anche con il metal e il punk.
Pieno zeppo di citazioni (Alabama di Neil Young, il solo di Comfortambly Numb dei Pink Floyd, She Drive Me Crazy dei Fine Young Cannibals tanto per dirne alcuni evidenti e dichiarate…), tutto l’album si muove su un binario in cui si occhieggiano Freddy Mercury e Marc Bolan, sempre però con un vezzo per lo sberleffo divertito, mai drammatico (e infatti non si sente aleggiare lo spirito di David Bowie), mai troppo intenso, però mai fuori dalle righe e assolutamente non auto-celebrativo.
Il Cd (appena uscito sul mercato) si chiude con un paio di altri pezzi da novanta: un soul-rock, The streets sincopatissimo che fa il verso alle bigband con un’enfasi romantico-goliardica e un gospel-rock trascinante e parossistico, Freedom, con un Nelly strepitosamente jaggeriano finanche nella prouncia ostentatamente finto-inglese e un testo cinicamente cattivo sul vero senso della statua della libertà di New York.
Disco come non si sentiva da tempo, con un suono personale pur se già sentito mille volte, una interpretazione di un vocalist destinato a durare e una band con idee e qualità duttile.
Il tutto sotto l’egida della “chiesa del rock’n’roll”, il “culto che tutti attendevano”. Quello dei Foxy potrebbe non essere un culto, ma di sicuro val la pena di ascoltarne una volta il sermone: il divertimento potrebbe aprirci gli occhi sul futuro del rock.