Alcuni anni fa uno storico del Novecento, Stefano Biguzzi, pubblicò un libro accattivante sia nel titolo sia nei contenuti: L’Orchestra del Duce. Il saggio esaminava, sulla base di documenti inediti, come Il Capo del Governo e Duce del Fascismo sia stato forse l’ultimo governante italiano a interessarsi in prima persona alla politica musicale del Paese e come i musicisti dell’epoca si fossero schierati in due grandi “partiti”. Gli “innovatori” (come Casella, Malipiero, Dallapiccola e lo stesso Pizzetti) ed i “tradizionalisti” (come Mascagni, Cilea, Alfano). Mussolini simpatizzava per i primi a ragione delle sue origini socialiste e della sua contiguità con il futurismo, ma non poteva non guardare con occhio benevolo anche ai secondi a ragione delle preferenze di un pubblico essenzialmente conservatore. Per compiacere i primi (e sé stesso) Mussolini creò il primo festival internazionale di musica contemporanea. Per tener buoni i secondi, diede a Mascagni l’alloro dell’Accademia d’Italia.



Ottorino Respighi era il solo tra i grandi musicisti italiani di quel periodo a non suonare nell’orchestra del Duce. Ce lo spiega il volume Ottorino Respighi – Un’idea di Modernità nel Novecento (Zecchini Editore, 2011) di Daniele Gambaro, pianista e clavicembalista ma anche acuto studioso della storia della musica nel secolo scorso. In effetti, mentre la seconda parte del volume è diretta a un pubblico con una cultura tecnico-musicale (esamina le peculiarità stilistiche delle composizioni di Respighi), la prima è un racconto, ancor più che un’analisi, del periodo e del clima culturale in cui Respighi crebbe e maturò. E spiega perché il compositore, direttore d’orchestra e pianista non ebbe mai l’esigenza di fare parte dell’Orchestra del Duce. Non tanto perché morì ad appena 56 anni, nel 1936, ma poiché la sua fama e reputazione internazionale lo ponevano su un piedistallo più alto di quello di gran parte dei compositori europei ed americani del periodo. Non aveva alcuna esigenza di mescolarsi con le diatribe e le polemiche interne alla professione nel BelPaese.



L’Italia musicale era al centro del “modernismo”, un crogiolo di sperimentazioni, di contaminazioni, di ricerche linguistiche, di riflessioni estatiche, unite al recupero del passato, alla connessione con le arti figurative, e anche alle nuove forme di fare politica. Respighi era protagonista indiscusso di questa importante fase, considerata, all’estero, essenziale per comprendere gli approdi della musica “forte” in Europa e negli Usa. A differenza di altri, riusciva a essere popolare presso il grande pubblico italiano e straniero, a essere eseguito nei maggiori teatri del mondo, a essere richiesto come direttore d’orchestra e come pianista.



È una fase che – come rilevato su IlSussidiario.net del 30 settembre 2011 – in Italia si è teso a ignorare per decenni, ma che adesso viene “riscoperta” grazie a direttori d’orchestra di rilievo come Gian Luigi Gelmetti e Francesco La Vecchia. Il lavoro di Gambaro è uno strumento essenziale per accostarsi a questa “riscoperta” e gustarla a pieno. I musicisti e i musicologi ne apprezzeranno l’analisi della ricerca timbrica e degli equilibri formali, nonché il modo di amalgamare sensualità mediterranea con elementi tardo romantici in gran misura di provenienza tedesca. Quelle che un tempo si chiamavano “le persone colte” la rievocazione di un’epoca e di un clima in cui in campo musicale non eravamo l’Italietta di cui spesso si narra, ma una fucina di idee e proposte centrale alla modernità in Europa e negli Usa.