Cosa possono avere a che fare dei musicisti italiani con la musica irlandese? Molto, come spiega bene l’irlandese John Waters nella presentazione scritta appositamente per il primo disco della milanese ShamRock Band. Non è la prima volta nel corso dei decenni che degli italiani si cimentano con il repertorio popolare dell’Isola di Smeraldo: “The Welcome Glass”, il disco in questione, è un ottimo esempio di tributo a una musica che appassiona il cuore caldo dei latini. Non ci sono solo infatti super classici irlandesi, come ad esempio Whiskey in the Jar o Saint Patrick Was a Gentleman, o ancora Galway Bay, ma intelligentemente la Sham Rock Band ha optato per brani del repertorio di moderni autori irlandesi. L’esempio migliore in questo senso è la bellissima e struggente Fields of Athenry, scritta a fine anni Settanta da Pete St. John, uno dei più intensi inni alla libertà che sia stato inciso.
La ShamRock Band è composta da: Giorgio Natale (voce e chitarra), Gabriele Zottarelli (fisarmonica e voci), Eleanor de Veras (voce), Pierluca Mancuso (fiddle), Andrea Natale (mandolino, chitarra, tin whistle, voci), Stefano Rizza (voce, banjo, chitarra) e Sergio Fornasieri (uilleann pipes, flauti, bodhrain). Per loro John Waters ha scritto la presentazione che segue e appare anche in inedita veste di musicista, suonando il melodion nel brano Ag Criost An Siol.
Il grande chitarrista blues irlandese Rory Gallagher usava definire la musica come un linguaggio che non ha mai smesso di parlare dentro di lui, come di un loop continuo nel suo cuore che esprimeva qualcosa che egli non avrebbe saputo dire altrimenti. Tutto ciò che poteva fare era mettere in musica quello che riusciva a cogliere.
Forse tutta la musica è davvero una linea continua di coscienza, che emana da qualche ricordo profondo di un luogo perfetto frammentatosi poi in realtà umana, un indizio della separazione del genere umano dal divino. La musica porta in sé qualcosa del non-visibile, del mistero, degli enigmi che ci definiscono. Un certo susseguirsi di note sembra emergere da – e penetrare in – luoghi nell’essere umano irraggiungibili con le parole, rendendo percepibile la natura più profonda della memoria umana, la coscienza e il desiderio.
Certo, qualcosa nella musica irlandese suggerisce che essa esca dall’anima in un vortice continuo di quasi-variazioni e quasi-ripetizioni, come se cercasse qualche formula perfetta per spiegare qualcosa di altrimenti incomprensibile. Ascoltare un grande suonatore di violino o di melodeon condurre una melodia in quella che sembra essere la sua ennesima permutazione è prendere coscienza di qualcosa dentro di noi cui ci si avvicina, qualcosa che viene circondato, corteggiato, definito da forme scolpite nel suono.
Tutta la grande musica è scaturita da questi dualismi: paura e promessa, lacrime e risate, buio e luce. La musica sembra sorgere fondamentalmente dal dolore del genere umano, dal senso di esilio, di perdita e di nostalgia. Questo vale sia per le musiche gioiose che per i pezzi malinconici, due facce della stessa medaglia, le prime essendo un tentativo di descrivere ciò che i secondi lamentano come un’assenza.
La musica irlandese è un tesoro ricco di passione, energia e intensità, e allo stesso tempo tende verso gli estremi: da un lato il dinamismo esuberante delle ballate reels, jigs e delle cornamuse; dall’altro la malinconia delle arie più lente e del canto sean nós, in cui i dolori della storia calamitosa d’Irlanda sono stati scolpiti e, nella riproposizione di un musicista, possono essere riproposti. Nel mezzo di questi estremi, c’è ben poco: un ampio spazio aperto in cui, in circostanze diverse, una più banale tradizione folk popolare si sarebbe potuta evolvere.
Naturalmente, oltre ad avere questo ruolo nel cuore del singolo, la musica svolge una funzione simile a livello collettivo. Di solito le musiche tradizionali e popolari non sono state scritte da un solo compositore, ma da molti, cambiando ed evolvendo da semplici a complesse man mano che ogni interpretazione aggiungeva il suo punto di vista. Quella che noi chiamiamo musica “irlandese” si dice arrivi dal Nord Africa ed è cambiata per via di questo spostamento.
Più tardi, si è modificata di nuovo quando, conservata nella memoria di coloro che fuggivano la fame e l’oppressione, è stata cantata sulle rive lontane d’Amerikay. E ancora quando, in diverse registrazioni, è stata rispedita a casa per creare nuove ondate di possibilità.
Queste caratteristiche della musica trasmettono qualcosa della personalità irlandese come conseguenza della storia da cui è emersa: accorata, anche malinconica nella sua essenza, ma che si lascia andare a incredibili picchi di euforia e di festa. Questa rimane, nonostante la esteriore disinvoltura, la condizione di base della nazione irlandese ancora oggi.