“Non è negli eventi che si forma la condivisione. La condivisione si definisce nella pratica quotidiana, non è invece con l’emergenza che si risolve qualcosa”. In un momento storico in cui gli eventi dedicati a situazioni di emergenza invece si moltiplicano, colpisce una frase così. Ma Niccolò Fabi è uno che sa stupire. La testimonianza di positività e speranza con cui ha reagito alla tragedia che lo ha colpito  (la morte della figlioletta di 22 mesi) è un esempio. Il giorno dopo una acclamata presentazione del suo nuovo disco, “Ecco”, alla Fnac di Milano ci ritroviamo a discutere di condivisione, ispirati da una frase che a entrambi piace molto, quella che il protagonista del film “Into the Wild” lascia come epitaffio davanti alla sua morte: “La felicità è reale solo se condivisa”. Il protagonista di quella tragica storia, Christopher McCandles, realmente esistito, se ne accorge quando è troppo tardi, dopo anni passati a fuggire da tutti e da tutto. Per Niccolò la condivisione è qualcosa che supera gli eventi, ma anche le situazioni contingenti: “Certo, la famiglia è il primo luogo dove si sperimenta questa condivisione, ma può anche diventare un luogo utilitaristico dove ci si chiude e ci si estranea” dice. “Invece io penso a qualcosa che travalichi e diventi sociale, nel senso di mettere al corrente gli altri delle tue idee e della tua vita, dare la possibilità di avvicinarsi a te, e quindi non essere protezionistici nei propri confronti”. Niccolò Fabi è di nuovo tornato alla sua attività, la musica. Ha appena pubblicato un gran bel disco “Ecco” e lo sta presentando in giro per l’Italia. A Milano c’erano centinaia di persone così tante che la sala della Fnac di via Torino non riusciva a contenere, segno di un pubblico sempre più numeroso e affettuoso nei suoi confronti. 



Sei una sorta di anomalia nella scena musicale italiana, sempre più divisa fra steccati e barriere. Da una parte gli indie, gli indipendenti a tutti i costi, dall’altra la canzone cosiddetta popolare. Tu come ti ci vedi in questo mondo?

Questo senso di anomalia lo percepisco anche io.  Lo identifico nel percepire il mondo della musica come problematica. L’indipendenza che però cerco non è una indipendenza estetica o ideologica, ma qualcosa che identifichi un linguaggio che mi appartenga. E secondariamente nell’estrapolare questo linguaggio da un certo tipo di ambiente musicale piuttosto che da un altro.



Non sei indie, dunque?

Ci sono musicisti che si preoccupano di incidere per una etichetta indie perché sono attratti da un’aura particolare. Scrivono parole che sono stereotipo del desiderio di piacere a un certo tipo di persone che hanno un certo tipo di gusto. Io faccio un percorso che è aspirazione alla libertà artistica prima di ogni cosa.

“Ecco” è un disco nato in modo particolare, frutto di convivenza fra musicisti diversi. Pensi di aver raggiunto quelle sonorità che avevi sempre cercato?

Un disco ha sempre una sua problematica unica,  fotografa un momento dell’evoluzione musicale quindi è inevitabile che a maggior ragione in questo momento risenta di una forte dinamica. Quello che abbiamo fatto in quelle due settimane di lavoro è onorare la fortuna e il privilegio di poter continuare a fare i musicisti nel 2012. Quella è la forma che abbiamo messo, è il risultato dello stato d’animo di sei musicisti che hanno convissuto dormendo anche insieme in quella masseria della Puglia.



Però sembra di capire che sei piuttosto affezionato a quanto hai prodotto.

 

Il disco avrà le sue evoluzioni. Quelle canzoni come hai sentito anche dal vivo diventano cose diverse a seconda dei contesti e delle formazioni che avrò a disposizione per suonarle. Ne riparliamo tra un anno. Ci sono senz’altro due o tre canzoni che mi porterò dietro per tuta la vita. So bene che in ogni mio disco ci sono cinque canzoni, sei a volte che non superano i cinque anni come sensazione di appartenenza. Altre rimangono.

 

Sedici modi di dire verde potrebbe essere una di queste? 

 

Credo di sì perché al di là della sonorità che è molto riuscita, essendo la canzone più live registrata è particolarmente viva. Ma anche per la tematica e cioè la mia passione per l’Africa e il viaggio che si legge tra le righe di questo brano, cose che difficilmente potranno non riguardarmi anche in futuro.

 

Presentando il tuo disco alla Fnac, parlando di confusione e difficoltà che si vivono oggi, hai parlato di un senso della paternità mancante. Cosa intendevi esattamente? 

 

Intendevo una paternità legata all’essere autori, creatori, portatori all’interno della società di opere, pensieri, idee, suggerimenti che possano essere utili non solo al concepimento della vita personale, ma anche del collettivo in cui ci troviamo a vivere. Una responsabilità quindi che ognuno da te che scrivi articoli a me che scrivo canzoni ma anche il consumatore, il lettore, gli ascoltatori, devono avere.

 

La paternità è quella cosa che aiuta una vita a svilupparsi.

 

In qualche modo la madre è colei che ci insegna ad amare e il padre colui che ci insegna a vivere dunque in qualche modo la figura paterna dovrebbe indicare una via per poter vivere meglio. 

 

Una paternità autorevole che forse oggi non c’è più?

 

Certamente, è vero.  Il padre dovrebbe essere figura di autorevolezza e non di autorità e basta. Coloro che hanno potere nelle nostre vite oggi questa autorevolezza non ce l’hanno. 

 

Nel brano Verosimile te la prendi con certa televisione, quella cosiddetta del dolore. Considerando le tue vicende personali, ti sei sentito tirato dentro questo tipo di televisione anche tu?

 

Ancor prima delle mie dolorose vicissitudini personali quando un cantante è nella posizione di avere a che fare con la televisione, è personaggio del mondo dello spettacolo, diventa inevitabilmente attore di questa televisione. Non mi capita spesso di andarci, ma tutt’ora  mi succede di entrare in un meccanismo che sicuramente ha degli aspetti che mi insospettiscono parecchio. Mi sento frustrato quando alcune cose vengono trattate in certi modi. 

 

 

Ad esempio?

 

Si tratta di giornalismo che dovrebbe raccontare delle cose ed è costretto da ipotetiche esigenze di mercato a concentrarsi su notizie spettacolari che dovrebbero attirare l’attenzione ai danni dell’approfondimento. Con l’uso di un linguaggio banale e qualunquista. La televisione è certo l’esempio più più popolare di questo, ma non la sola. 

 

Succede anche con la Rete? I social network ci trascineranno in un buco nero analogo?

 

Internet è un oceano dove c’è dentro tutto. Uno strumento molto potente, ce ne rendiamo conto anche noi musicisti che hanno pochi mezzi a disposizione per farsi conoscere. Internet diventa un luogo determinante nel far sapere agli altri che hai qualcosa da proporre. C’è una innegabile forma di libertà ma  il problema può essere che da una voce democratica questa euforia dell’uso del mezzo porti sostanzialmente a dire solo grandi minchiate. Il fatto che ognuno possa dire la sua abbassa il linguaggio e l’approfondimento che invece si potrebbero fare.

 

La felicità è reale solo se condivisa, una frase che ti piace, mi sembra di capire. In cosa si manifesta questa condivisone? La famiglia?

 

La famiglia potrebbe avere un fine utilitaristico dove ci si chiude e ci si estranea. Ovvio che è il primo luogo dove condividere, però penso a qualcosa che travalichi e diventi più sociale e quindi condividere vuol dire mettere al corrente gli altri, dare la possibilità di avvicinarsi a te, non essere protezionistici nelle proprie idee in modo che diventino anche degli altri e che anche loro le possano condividere con te. 

 

Anche momenti come il concerto, penso a quello straordinario momento di musica fatto per ricordare la scomparsa di tua figlia.

 

Quello è stato un giorno speciale, ma non è negli eventi che si forma la condivisione. Non voglio certo togliere importanza a quella giornata, ma ritengo che sia una pratica quotidiana   quella dove va giocata la condivisione. Non è l’emergenza, con quello non risolvi nulla.