Lilli Greco, nome poco conosciuto dal grande pubblico, ma non certo dai musicisti e dagli appassionati di musica di qualità, è scomparso due giorni fa all’età di 78 anni. Discografico, produttore, musicista lui stesso, per molti è indicato come “il padre dei cantautori”, perché ne tenne a battesimo parecchi quando quel fenomeno, agli inizi degli anni 70, cominciò a diffondersi. Soprattutto quelli di scuola romana, visto che anche lui faceva parte di quel giro, avendo lavorato per anni alla storica RCA, la casa discografica romana che ha prodotto il meglio della musica italiana. Nomi come Francesco De Gregori o Antonello Venditti, oppure Riccardo Cocciante , ma anche Paolo Conte, che proprio Greco convinse a mettersi a cantare dopo essersi limitato per molti anni a scrivere per conto terzi. Una personalità ricca di sfumature, ma soprattutto un amante della musica. Ilsussidiario.net ha chiesto al giornalista e scrittore Maurizio Becker, che a lui e alla RCA ha dedicato un riuscitissimo libro (“C’era una volta la RCA. Conversazioni con Lilli Greco”) di ricordare Lilli Greco.



Tu hai conosciuto bene di persona Lilli Greco: al di là dei suoi meriti artistici, che tipo di persona era?

Un uomo di straordinaria sensibilità artistica, rara onestà intellettuale e smisurata generosità. Totalmente disinteressato alle implicazioni economiche del suo mestiere. Pronto a rinunciare a tutto pur di difendere un’idea o un’artista.



Cosa ne pensi dell’etichetta che gli è stata spesso appioppata, quella di “padre dei cantautori”?

A lui stesso non sarebbe piaciuto. Di padri dei cantautori, veri o presunti, in Italia ce ne sono già troppi. La verità è che Lilli è stato un produttore anomalo, fondamentalmente perché era egli stesso un artista e, come gli artisti, guardava in cagnesco il Sistema industriale della musica, diffidava delle sue promesse, lo subiva come un male necessario e cercava sempre e comunque di prenderlo in contropiede. Logico dunque che, fra tutti i tipi d’artisti, prediligesse i cosiddetti “cantautori”, cioè quei personaggi che non si limitavano a imparare una canzone e a cantarla, ma se la scrivevano da sé.



E’ esagerato o giusto dire che fu uno dei pochi autentici produttori italiani sullo stile di quelli americani, capace cioè di cogliere profondamente l’aspetto musicale e di valorizzare l’artista senza seguire le mode puramente commerciali?

E’ un fatto che, in certe situazioni di impasse, Lilli se ne uscisse puntualmente con una frase divenuta poi proverbiale: “Provate a pensare come farebbero gli americani.” Paolo Conte questa esortazione se la ricorda molto bene. In questo senso l’America, ai suoi occhi, rappresentava il rigore, la professionalità, l’etica professionale. Al confronto il mondo della musica in Italia era, ed è rimasto, molto più improvvisato, molto più sciatto e, se vuoi, molto meno artistico.

La sua figura di discografico e produttore negli anni 60 e negli anni 70: quali le differenze principali?

Nei primi anni 60, gli anni in cui è iniziato il boom della musica leggera, Lilli ha messo le sue grandi qualità al servizio dell’azienda in cui lavorava. Lo ha fatto senza protagonismi particolari, magari con qualche bizza, ma restando il più possibile dietro le quinte, comportandosi cioè come un impiegato, una semplice ruota dell’ingranaggio. In fondo a quell’epoca la sua figura professionale era ancora definita, sbrigativamente, “assistente musicale”. Man mano però che gli anni passavano, Lilli sentiva il cambiamento e ogni giorno, con l’artista di turno, lottava nel tentativo quasi donchisciottesco di spostare un metro più in là il confine, di alzare di un altro centimetro l’asticella. 

 

E gli anni 70?

 

Poi sono arrivati gli anni 70 e secondo me lui ha avuto la conferma che aveva ragione a voler osare di più: l’avvento dei cantautori come fenomeno di massa ha avuto in un certo senso un effetto liberatorio su di lui, e Lilli ha trovato la forza di alzare la voce, di sfidare le parti più conservatrici della RCA, e di puntare tutto, giocandosi nome e posto di lavoro, su talenti “devianti”, difficili, in apparenza poco discografici. E qui sono venuti fuori De Gregori e Conte.

 

Che eredità lascia?
 

La musica che ha registrato, le canzoni in cui ha creduto, gli artisti che ha aiutato a crescere. Ma soprattutto una visione etica, pulita, incompromessa della musica. Sembra poco, ma è tantissimo. Pochi personaggi hanno lasciato un’impronta così profonda, in Italia si contano sulla punta delle dita.

 

Che cosa ha dato maggiormente agli artisti con cui ha lavorato? De Gregori ad esempio aveva un rapporto molto conflittuale con lui pur riconoscendone i grandi meriti per la sua carriera. 

 

Lilli non è mai stato dimenticato dai suoi artisti, a differenza di altri “produttori”. Perché per i suoi artisti lui è stato quasi un padre: li ha messi in carreggiata, li ha sostenuti, li ha difesi, li ha ferocemente criticati se era necessario. Ma sempre e solo nel loro interesse, senza mai guadagnarci nulla. Anzi l’aspetto più notevole della vicenda è proprio questo: gli artisti che gli sono più grati sono proprio quelli che a un certo punto lo hanno mollato per proseguire da soli. Vedi gli Avion Travel, ad esempio. Hanno capito che Lilli, per loro, c’era sempre, anche dopo la “separazione”. Hai citato Francesco De Gregori, ed è l’esempio più calzante: in fondo la loro ultima vera collaborazione risale a quasi 40 anni fa, ma il filo fra loro due non si è mai spezzato: quando Francesco ne sentiva il bisogno, chiamava Lilli per sentire la sua opinione, pur sapendo che non gli sarebbe piaciuta e che probabilmente avrebbero litigato. Si erano visti anche tre o quattro mesi fa, me lo raccontava Lilli in uno dei nostri ultimi incontri. E l’altra sera, quando ho chiamato Francesco per dargli la brutta notizia, ho sentito nella sua voce esattamente quello che volevo sentire. Non c’è stato bisogno di dire molte parole.

Il tuo libro C’era una volta la RCA: cosa ti ha spinto a scriverlo e quale pensi sia l’aspetto principale da sottolineare.

 

Quando ho iniziato a preparare quel libro, conoscevo Lilli da quindici anni. Avevamo passato lunghe ore a chiacchierare di musica e tirato tardi a forza di aneddoti e racconti – Lillli era un formidabile affabulatore, mai convenzionale. Poi all’inizio del 2005 morì Ennio Melis, di cui Lilli mi aveva sempre parlato ma che curiosamente non ero mai riuscito ad incontrare. Ecco, questa cosa mi fece capire che non c’era tempo, che bisognava lasciare una traccia. In quei giorni stavo leggendo un libro molto divertente e istruttivo, le Conversazioni con Billy Wilder di Cameron Crowe. E così mi venne naturale domandarmi, un po’ alla Lilli, “ma perché gli americani riescono a fare questo tipo di libri, e noi no?”.

 

Con la scomparsa di Greco finisce davvero una parte fondamentale della storia musicale italiana?
 

La storia della musica italiana, a quanto pare, non interessa a nessuno. Se non a pochi appassionati, che però troppo spesso confondono la memoria con la nostalgia. Lilli non era affatto un personaggio nostalgico, guardava sempre davanti a sé, faceva progetti, meditava di “alzare un po’ di polvere”, per usare un’altra delle sue espressioni. Quindi se dobbiamo parlare di Lilli Greco per farne un santino, lasciamo perdere. Se invece vogliamo utiizzare questa vicenda umana e artistica (la sua e quella di altri come lui) come esempio di come ci si dovrebbe avvicinare al mestiere della musica, allora sono disposto a farmi intervistare su di lui vita natural durante.

(Paolo Vites)