Un tema davvero affascinante è quello messo a fuoco in un recentissimo volume di saggi, edito dalla casa editrice Viella come pubblicazione dell’Università La Sapienza di Roma: La musica dei semplici. L’altra Controriforma. Si tratta di una rassegna di oltre una ventina di studi, coordinati da Stefania Nanni, che ci documentano, una volta di più, il grande rilievo che va attribuito agli aspetti più tipicamente umani della storia (quali: l’arte, qui segnatamente la musica), ribadendo, dopo tutta un’educazione ottocentesca all’esaltazione della storia come una vicenda di guerre e di equilibri, che il fenomeno uomo, così come il popolo e le aggregazioni a cui esso può dare vita, ci rivela un lento, continuo cammino sia verso la comprensione del mondo esterno (le scienze propriamente dette), sia verso la comprensione del proprio sé.
Il quadro tracciato consente di vedere come i missionari cattolici della prima età moderna interpretarono e diffusero il canto nella e oltre la liturgia, spesso indovinando che l’anima umana è come una grande e perfetta arpa, con mille corde e mille rapporti, matematici, affettuosi, doloranti e festosi che fioriscono ora in armonia, ora in canto e contrappunto; senza o con strumenti: archi trombe timpani cembali salteri organi ecc. Gli studi più interessanti, ad avviso di chi scrive, sono quelli dedicati all’America Meridionale e alla Cina.
Certamente su tutto pesa la povertà dei reperti: i missionari producevano, sì, libretti a stampa o manoscritti; ma sia questi, sia i rarissimi spartiti musicali, sono in gran parte finiti dispersi. Il campo da esplorare aperto al lavoro di giovani studiosi potrebbe rivelarsi, su questo fronte, notevolmente interessante.
È vero che centro propulsore dell’uso della musica come strumento catechetico, di lode e di festa, è stata l’Italia insieme con la Francia. Moltissimo si deve a quell’opera grandiosa che fu l’Oratorio di san Filippo Neri, vero musicista che alternava il canto alla predicazione. I suoi missionari esportarono questo metodo sia nelle Americhe, sia in Sicilia e Calabria (regioni giudicate, quanto a livello culturale, ben povere, simili alle Indie). Si cantavano anche le laude, che provenivano dal secolo XIII (ben anteriori all’esplosione del canto religioso popolare del luteranesimo). Per la Calabria, in aggiunta, c’è da segnalare l’originalità di molte processioni, con accompagnamento di trombe, trombette, taccole, dette anche “tocca tocca”. Si accendevano anche gare tra chi suonava il trummiceddu, una specie di corno (se ne parla nel saggio di Antonello Ricci).
Ma i missionari attestano grandi capacità musicali e artistiche in modo particolare tra i Chiquitos latinoamericani. Della loro ricca produzione religiosa rimangono gli spartiti preziosi lasciati dai Gesuiti. Ne tratta nel volume Francesca Loverci, che fa anche notare una cosa molto interessante: dopo la tragica espulsione della Compagnia, il governatore Miguel Fermín de Riglos cercò faticosamente di riproporre lo stesso sistema delle “reducciones”… perché era il più indovinato per quegli indios…
Ai Filippini dedica uno studio Alessandro Zuccari, ricostruendo molto bene l’impianto degli Oratori con una descrizione del famoso “auditorium”, magistrale palazzo per la musica costruito a Roma dal Borromini.
A Napoli si faceva catechismo con la musica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: era necessario memorizzare le verità cristiane tramite il canto, anche per il vastissimo analfabetismo in mezzo alla popolazione più umile. Deriva esattamente da questa tradizione il “Tu scendi dalle stelle“ che, pur non avendo mai avuto una partitura rigidamente definita in modo univoco, è nell’animo di tutti noi da centinaia di anni. Sant’Alfonso educava con decine e decine di “canzoncine“ di stampo analogo, a due voci che procedono in contrappunto, per terze, con basso continuo.
Questo genere di musiche religiose a scopo formativo (di cui rari sono i testi sopravvissuti) si diffuse in tutta l’Europa cattolica (lo chiariscono egregiamente Paolo Saturno e Stefania Nanni). Ma forse la parte più interessante del volume – e ci scusiamo perché non possiamo nominare tutti i 22 autori – è quella dedicata alla Cina, qui con una attenzione imperniata soprattutto sulla figura – grande figura – di Teodorico Pedrini (pseudonimo Nepridi), padre lazzarista, nativo di Fermo.
Carattere fortissimo, animo obbediente al centro romano di Propaganda Fide, dopo otto anni di viaggio egli raggiunse la Cina (1710) e all’indomani del suo arrivo si trovò al cospetto dell’imperatore Xangxi.
Pedrini si presentava come un novello Matteo Ricci: non le matematiche e il cielo, ma i rapporti musicali e il canto erano la sua via per fare presa sulla mente curiosa e saggia dell’imperatore.
Con lui suona su spinette e cembali. Fa venire dall’Europa vari strumenti ad arco. Costruisce di persona due organi finemente dipinti e dotati di buoni registri. Pedrini diventa presto il maestro dei figli dell’imperatore e costituisce egli stesso una scuola musicale.
Era allora in corso di realizzazione un’opera colossale sulla musica con parti dedicate anche a quella europea, opera che fu compiuta nel 1782. L’imperatore ne fu sollecitato a inviare un proprio trattato musicale al sommo pontefice romano. Vi vengono presi in esame i due distinti metodi: ut re mi fa sol la e ut re mi fa sol la si. L’imperatore si interessa molto al “si”, ai diesis e ai bemolli, dimostrando di saper entrare nel vivo dei problemi del temperamento bachiano.
Pedrini scrisse decine di sonate per violino e basso continuo. Solo nel 1949 alcune di queste vennero inserite nel catalogo ufficiale della musica cinese (sono le uniche composizioni occidentali attestate in Cina nel XVIII secolo). Piacevano molto all’imperatore e questo è per noi molto significativo: riapre il problema dei rapporti tra l’orecchio umano (universale), l’anima e la capacità ricettiva degli intervalli naturali e temperati.
I musicologi solo da poco si interessano al Pedrini: la prima pubblicazione degna di nota a suo riguardo risale al 1937. Qualche sonata è stata incisa nel 1996.
La vita di Pedrini fu travagliatissima. Egli si fece portavoce delle disposizioni di Roma circa i riti cinesi, che furono proibiti. Per questo fu osteggiato e imprigionato due volte dai Gesuiti francesi, e l’imperatore presentì tutta la litigiosità dei missionari europei (Gesuiti italiani, per esempio, contro francesi e portoghesi…). È questo un triste capitolo nella storia della chiesa cattolica in Cina. Ma Pedrini sopportò tutto, sapendo che si era recato in terra cinese solo per l’evangelizzazione e non per fare il musicista applaudito di corte (e pure era un provetto musicista, che conosceva Vivaldi e Corelli).
Trascorsi trentadue anni, morì dopo aver percorso migliaia di chilometri in terra di missione e finì con l’essere nominato, ormai vecchio e stanco, maestro di cappella. La sua vicenda rimane un esempio emblematico del grande slancio missionario che percorse tutta l’epoca della Controriforma, da un estremo all’altro di una cristianità che aveva ritrovato slancio e sprigionato dal suo seno nuove e sorprendenti energie creative.
(Lorenzo Fornasieri)