In una mitica Ceylon, quale poteva essere immaginata nel Secondo Impero da Eugène Delacroix e dalla ricca borghesia emergente, due giovani, Nadir e Zungar, sono amici per la pelle. Il primo è cacciatore, il secondo un pescatore di perle ed è appena stato eletto Re del villaggio. Si sono ambedue innamorati di una bella ragazza, Leila, peraltro appena intravista, ma ciò non ha intaccato il loro rapporto fraterno. In questo ambiente da cartoline illustrate delle Maldive, i guai iniziano quando Leila appare su un barca dall’Oceano Indiano in compagnia con il capo dei Bramini (i sacerdoti), Nourabab. Leila è destinata al Tempio ed alla verginità. Entrata nel Tempio, Leila scopre di essere innamorata di Nadir e fa quello che due ragazzi innamorati usano fare. Vengono scoperti sotto le lenzuola e denunciati. Ma proprio Zurga, memore che Leila (quando era bambina lo ho fatto nascondere nella propria capanna salvandolo da nemici che lo inseguivano), li fa scappare dal rogo sacro mettendo a fuoco l’intero villaggio. Lelia e Nadir fuggono grazie al compiacente Oceano Indiano, ma Zugar finisce alle fiamme. Questa favola sentimentale affascinò il venticinquenne Georges Bizet, il quale aveva già una vita affettiva ed erotica abbastanza complicata.
Considerata il suo primo capolavoro operistico, Les Pêcheurs de Perles, opera esotica, spesso incompresa e dalla vita piuttosto travagliata, viene considerata dalla critica moderna importante tanto quanto la più nota Carmen. Viene riproposta dal San Carlo nella sua versione in lingua originale (non nella consueta tradizione ritmica italiana), sarà in scena dal 16 al 25 ottobre. La produzione parte dal Teatro Verdi di Trieste e si è vista anche a Udine. Sembra – ma in questi anni di crisi finanziaria il dubitativo è d’obbligo – che viaggerà anche verso altri teatri. Les Pêcheurs de Perles venne accolta piuttosto freddamente quando nel 1863 venne presentata al Théâtre Lyrique di Parigi. Bizet allora era relativamente poco noto nel mondo musicale francese. Ebbe un grande successo pochi anni dopo la morte del compositore e restò nei cartelloni (in Italia in traduzione ritmica) sino ad essere riesumata dalla Scala nel 1938. Risponde allo stile orientaleggiante di moda in quegli anni.
E’ bene che in questi anni la si stia riscoprendo. La partitura è percorsa da affascinanti melodie – come il duetto tra tenore e baritono al primo atto e l’aria di bravura Je crois entendre encore. Favorita da tenori come Caruso, Gigli, Simoneau, Kraus e Getta, viene raramente messa in scena per le difficoltà vocali della parte di Nadir. Dmitry Korchak mostra di essere oggi, con Juan Diego Flórez e Juan Francisco Gatell, uno dei rari tenori in grado di dar voce a Nadir. Ottimo anche lo Zungar di Dario Solari, mentre la Lelia di Patricia Ciofi ha avuto, la sera della prima una sbavatura nell’aria del primo atto per riprendersi nei successivi (anche se non ha più la tessitura di alcuni anni fa: ha cantato troppe Traviata e la voce le si è ispessita ). Bravi Gabriele Ferro e Salvatore Caputo nel dirigere orchestra e coro. Di ordinaria amministrazione la coreografia di Annarita Pasculli (anche a ragione dei modesti costumi delle danzatrice). Efficace, ed economiche, le scene unica di Giorgio Ricchelli: una grande spiaggia bianca, ruderi di un tempio e mare in lontananza. Tradizionale la regia di Fabio Sparvoli.