Per quello che è stato uno dei più straordinari interpreti e autori dell’intera storia della musica rock, è ovvio che le aspettative in caso di un nuovo disco siano sempre molto alte. Il problema è che da un ventennio a questa parte Van Morrison manda regolarmente deluse queste aspettative. Non che faccia dischi brutti – e ci mancherebbe – fa solo dei dischi inutili. E ne fa tanti, con una regolarità che ha dell’imbarazzante, praticamente uno all’anno tutti pericolosamente simili fra loro. E con dentro tante canzoni che sembrano la stessa canzone. Di fatto, l’ultimo grande capolavoro dell’artista di Belfast risale addirittura al 1991, quando pubblicò il bellissimo “Hymn to the Silence”. Dopo, qualche volta di più qualche volta di meno, dischi pubblicati come se si andasse in ufficio a timbrare il cartellino. D’altro canto, per Van Morrison non sembra esserci alternativa, come indica il titolo del suo ultimo lavoro: “Born to Sing: No Plan B”. Nato per cantare, non ci sono alternative.
Buon per lui, che in questo modo trova evidentemente soddisfazione a uno spirito inquieto che lo ha sempre caratterizzato, uno sfogo che evidentemente si esprime solo davanti a un microfono. Ma la vena prodigiosa che aveva caratterizzato l’uomo di “Astral Weeks” o “Moondance” per andare indietro ai tempi più antichi (per non parlare dell’uomo di Gloria, incisa quando era la voce dei Them), oppure quella di “No Guru, No Method, No Teacher” o “Irish Heartbeat” per andare a tempi più recenti, è persa. Colpa – un po’ come succede anche al suo amico Bob Dylan – del fatto di non impegnarsi con produttori di vaglia, cosa che ad artisti ormai di una certa età suona come un impegno troppo gravoso e una forzatura del proprio io. Peccato, perché il nuovo disco che vorrebbe sfiorare ambientazioni soft jazz (lo dimostra un brano come Close Enough to jazz, sin dal titolo, ma anche dalla lunga intro strumentale) nelle intenzioni vorrebbe tracciare percorsi se non inediti, poco affrontati.
Invece non c’è nessun brano degno di nota, tutti pericolosamente simili uno all’altro nel classico andamento blues della doppia battuta, e senza soprattutto quelle strabilianti invenzioni vocali che fecero del nostro la più bella voce bianca di soul e R&B. Ma quelli erano gli anni settanta e questi sono i primi dieci del Duemila. Spiccano solo due pezzi, l’iniziale Open the Door (To Your Heart), abbastanza briosa nel seguire il classico tracciato celtic soul del miglior Van Morrison, e l’intensa ballata notturna End of the Rainbow impreziosita da interventi di tromba e trombone, molto jazz. Una atmosfera sognante, degna del miglior misticismo che Morrison ha saputo tirare fuori nei suoi momenti migliori con accenno al suo tipico crescendo finale.
Il resto scorre nella noia tra il timido swing di Close Enough to Jazz che strizza l’occhio a Frank Sinatra ma che meritava ben altra forza interpretativa e l’imbarazzo di una sorta di protesta alla “occupy Wall Street” in If in Money We Trust dalle pessime sonorità sintetiche anni ottanta. Peraltro la critica di ordine sociale si trova un po’ ovunque, ad esempio in Educating Archie (“slavery to capitalism” dove però risulta più efficace una frase come “entertainment on TV and all kinds o’ shite”). Quello che poi infastidisce di più, oltre alla banalità compositiva dei brani, è che Morrison rinunci del tutto a qualunque improvvisazione vocale, a qualunque scartamento di lato, rimanendo rigido nella struttura fissa di brani che per il modus in cui sono stati concepiti avrebbero dovuto permettere ben altro.
Tenendo poi conto che la metà dei pezzi supera abbondantemente i sette minuti di durata: ma no, non c’è nessuna vitalità musicale dentro di essi, a parte qualche buon intervento al sax da parte dello stesso Morrison. Peccato, ancora una volta, per tutti noi che siamo cresciuti “ascoltando il leone” di Belfast spezzarci il cuore.