Oggi 23 ottobre Siegfried, terza giornata de L’Anello del Nibelungo, in gergo il Ring (che verrà presentato integralmente in giugno), verrà presentato alla Scala dove resterà in scena sino al 18 novembre. Siegfried è forse tra le opere del Ring” wagneriano, la più difficile da allestire. E’ la più breve delle tre “giornate”, pur se con le sue tre ore e mezza supera di gran lunga la durata del “prologo”, l’atto unico Das Rheingold. Comporta una complicata produzione scenica con draghi, nani e, come protagonista, un fanciullo quasi imberbe, coperto solo di pelli (nonché in una lunga scena, quella del bagno nel sangue del drago, totalmente ignudo) ma con la voce da heldentenor (tenore eroico) che anche i migliori tenori acquistano in piena maturità. Ben Heppner, uno dei maggiori tenori wagneriani viventi, ha debuttato nel ruolo a 54 anni a Aix-en-Provence. Ancora più ardue di quelle sceniche, le difficoltà musicali. Con voci quasi interamente maschili nei primi due atti, è opera densa di descrizioni (la foresta e i suoi misteri) che può essere interpretata (si riascolti la versione diretta da Karajan) quasi come un dramma pastorale o una commedia nera in stile fratelli Grimm. Ma che ha forti pulsioni eroiche (si riascolti Furtwangler o Kemp) pur nei toni talvolta di un idillio quasi intimista (nelle letture di Solti, Boulez e Bohm). Inoltre, c’è uno stacco netto tra i primi due atti e gran parte del terzo dove domina l’incredibilmente libidinosa (per metà Ottocento) scena finale. Del resto trascorsero 12 anni prima che, completato il resto, Wagner compose questa parte conclusiva.



La vulgata attribuisce la pausa alla convinzione, rivelatasi errata, che il Ring, pur se portato a termine, non avrebbe mai visto un palcoscenico, per ragioni sia di costo sia di innovazione drammatica e musicale. L’analisi della struttura del terzo atto e in particolare dell’ultima scena mostra, invece, che per trovare note e accordi, Wagner sarebbe dovuto scendere nell’eros e thanatos di Tristan und Isold, caratterizzato da una scrittura quasi interamente cromatica con accenti tali da anticipare la dodecafonia. E risalire nell’esplosione di gioia di vita e di tolleranza tutta diatonica dei Meistersinger. L’ultima scena di Siegfried ha un impasto cromatico su una struttura diatonica, inconcepibile prima delle due opere pensate e composte nei 12 anni di interruzione del Ring. Ucciso il drago, bagnatosi nel suo sangue, conquistato l’anello che dona l’onnipotenza, spezzata la lancia allo stesso re degli dei, attraversato un muro di fiamme, il giovane Siegfried si trova davanti a qualcosa che non ha visto prima: una donna addormentata (Brunhilde). Si accorge della differenza quando le apre la corazza. Ha, per la prima volta nella sua vita, paura. Al ragazzo in procinto di diventare uomo, Brunhilde spiega la differenza tra generi e gli insegna cosa è l’amore e come lo si fa.



Quindi, 45 minuti di eros pieno di gioia culminante in un orgasmo finale in fortissimo “do”, proprio mentre in quegli stessi anni il melodramma in Italia, il grand opèra in Francia e il nazionalismo perbenista in Russia scacciavano l’eros, con un ostracismo durato oltre mezzo secolo, sia dal teatro in musica che dal teatro tout court. Per quei 45 minuti ci voleva una musica ardita e innovativa che sarebbe riapparsa solo nel secondo atto del Parsifal Va ricordato che l’eros era di fatto scomparso dai teatri con il rossiniano Le Conte Ory. Lo stesso Wagner avrebbe ripreso l’argomento, prima che nelParsifal, nel primo atto di Gotterdamerung (“Il Crepuscolo degli Dei”) dove si assiste addirittura a uno scambio di coppie in cui uno dei partner, Brunhilde, non è consenziente. La musica, però, enfatizza il dramma della violenza alla semi-divina valchiria diventata donna; non l’eros, tanto meno l’eros gioioso del finale di Siegfried, un vero e proprio inno alla sacralità della copula, molto più lunga e più trascinante di quella con cui si apre Der Rosankavalier (l’orgasmo della trentatreenne Marie Therese e del diciassettenne Octavian).
Perché sarà alla Scala il 23 ottobre – il vostro chroniqueur vedrà lo spettacolo il 27 ottobre causa ingorgo con una prima romana- può essere utile riporre la recensione apparsa sul Giornale della Musicasulla base della recita del 3 ottobre a Berlino (questo Ring è una coproduzione tra Scala e Staatsoper): Davvero strabiliante la Staatskapelle e l’intesa con Barenboim, ne risulta un Wagner trasparente, cesellato in ogni dettaglio che non copre mai i cantanti. 



I tempi scelti sono piuttosto lenti e quando è richiesto grande volume di suono la trasparenza e l’equilibrio non vengono mai meno. Da brivido l’attacco del secondo atto, la fermezza degli ottoni è magistrale. È raro poter ascoltare dal vivo un’esecuzione di Wagner a tale livello e di tale precisione. Ottima la prova di Lance Ryan nel ruolo del protagonista. Un Heldentenor, rarità in questi anni, canadese, prestante di fisico e chiaro di timbro, selvatico al punto giusto nei modi. Di altissimo livello Mime (Peter Brunder, anche caratterista d’eccezione dalla tonante voce chioccia) e Alberich (Johannes Martin Kranzle) dagli accenti drammatici. Come pure la Erda della avvenente Anna Larsson. Meno smaglianti sono apparsi il Wanderer di Juha Uusitalo e la Brunnhilde di Irene Theorin, comunque degnissimi.

 

 

Sulla messa in scena valgono le considerazioni fatte per i due spettacoli precedenti visti alla Scala. Cassiers inventa scenografie con gradevoli proiezioni caleidoscopiche sul fondale (alla lunga distraenti), ma la sua regia lascia molto a desiderare. Non a caso alla fine dello spettacolo Cassiers è stato accolto da sentiti buu. Ancora ha inserito delle coreografie come nell’”Oro del Reno”, con buon effetto dei ballerini che agitano il telo con le scaglie del drago, poi però non lasciano più il campo, giocano con delle spade incrociandole a formare figure diverse, si trasformano in scranno dove va a sedere Siegfried, si raccolgono in gruppi agitando le braccia. Nel primo atto il pavimento coperto di cubi e gabbie di ferro s’inclina fino a diventare verticale, costringendo il povero Wanderer a equilibrismi complicati per non cadere di sotto. Brutti i tubi al neon che si accendono a un tratto, con uno usato come mantice della fucina. Mentre nel secondo atto il flauto costruito da Siegfried pare proprio una serpe che lui tenta di strozzare. Appiattito poi l’incanto dell’uccellino della foresta qui visibile nelle vesti di una fanciulla in lungo, come in lungo smisurato è Brunnhilde che si destreggia sulla roccia nel finale a rischio di sconquasso. Ottima l’accoglienza al cast nel finale, raddoppiata per l’orchestra schierata sul palco insieme con Barenboim.