John Wetton è l’ennesimo ritratto originale partorito dal grande calderone della musica rock. Nato come session man per svariati artisti della scena musicale anglosassone, si stacca ben presto da uno status remunerativo ma decisamente stretto rispetto a potenzialità che cercano un punto di fuga dai cliché cuciti addosso alla figura del turnista di lusso.
E’ per questo che la sua anima irrequieta e ribelle lo porta a diventare una sorte di eroe dei due mondi della musica, innanzitutto per il suo sodalizio con i King Crimson di Robert Fripp in uno dei due periodi di massimo splendore del mitico ensemble britannico. Lì realizza un connubio impensabile e tra i più sorprendenti nella musica di sempre i cui frutti più grandi – qui e altrove – portano da sempre la stigmate del contrasto di stili. Da una parte le visioni aliene e stralunate di Fripp. Dall’altra il tenore romantico del cantato e della scrittura di Wetton che conferisce al gruppo un respiro profondo e antico, un balsamo di melodia e intimità ancor oggi unico nel suo genere. Una miscela che si snoda e prende forma in episodi d’intenso lirismo come “Book of Saturday”, “The Nightwatch” e “Starless”.
Lo scioglimento di quei primi Crimson lancia Wetton all’inseguimento di una espressione musicale attenta ai rivolgimenti musicali di fine anni ’70. Dapprima nel combo (poi trio) fusion-sinfonico UK facente capo a un altro musicista genialoide come Eddie Jobson, esperienza breve ma intensa. In mezzo a brani lunghi, densi e articolati, una canzone semplice e gioiosa dal titolo “Nothing To Lose”. Un’aria che anticipa in maniera inconfondibile le tematiche armonico-musicali del nuovo a venire. Grande impatto corale, intrecci vocali di grande presa, melodia che conquista e trasporta. E’ il 1979 ma Wetton sa bene dove vuole arrivare. Tre anni di pazienza ed ecco gli Asia, il suo progetto prende forma come supergruppo formato da celebri strumentisti fuoriusciti da realtà più o meno memorabili o importanti, di certo tutti musicisti di vaglia. Il formidabile Steve Howe (Yes), il funambolico Carl Palmer (ELP) e il bravo Geoff Downes (Buggles) quest’ultimo autentico fiancheggiatore delle intenzioni di Wetton. Ciò che ne esce è una bella e particolare espressione che – presa da sempre sottogamba dal salotto critico – rivela l’ennesima quadratura del cerchio tipica delle avventure di spessore.
L’eredità del primo AOR e dell’arena-music (Jefferson Starship, Toto, Foreigner) impastate delle atmosfere strutturate del rock sinfonico d’annata, producono un eponimo d’esordio (“Asia” 1982) dove il genere melodico corale conosce una seconda grande venuta mescolandosi con trame sonore guizzanti in codice Yes e derivati (“Heat of The Moment”, “Time Again”, “Wildest Dreams”, “Cutting it Fine”). Cantabilità dispensata con maestria, classe strumentale, arrangiamenti ficcanti, tutti ingredienti ben dosati e riproposti nel sequel “Alpha” (1983) dove lo spunto dei solisti viene contenuto e armonizzato in favore della coesione dell’insieme, l’enfasi viene spostata sulla canzone in sé come conduttrice della melodia (tra le altre “Open Your Eyes” e “Midnight Sun”).
Da lì la separazione causa incomprensioni tra Howe e Wetton, la graduale riduzione in brandelli della band, fino al lungo ritorno concretizzatosi sotto l’egida di Wetton e Howe nel 2008. “Phoenix” non lascia un buon segno, il gruppo invia contributi separati, qualcosa sussurra piacevole, si respira perlopiù aria di saldi da outlet.
La band tuttavia suona parecchio, torna in studio al completo, compone e registra insieme. Il risultato, “Omega” (2010), è un mezzo miracolo che riaggancia in buona parte la vena melodico/strumentale dell’esordio e prelude a questo nuovo lavoro “XXX”, un bel disco che – specularmente a quanto avvenne allora – riprende e sviluppa le caratteristiche del secondo album del gruppo “Alpha”. Chitarre e tastiere in funzione di incremento melodico. Ritmica, inclusa quella di Palmer, funzionale all’ordine del tutto.
Il Wetton che agisce con la complicità di Downes e Howe è un autentico giacimento di rock e melodie corali rotonde e accattivanti. Dai fendenti di “Tomorrow The World” – con Downes a controbilanciare l’incontenibile fraseggio di Howe – al largo melodico di “Bury Me in Willow” alle scansioni hard di “No Religion”, il terzetto d’apertura alterna magistralmente uptempo dominanti ad atmosfere liquide e sospese mettendo a tema in quella maniera che è tutta anglosassone il domani del mondo, il proprio epitaffio come enigma e la disoccupazione (“No Religion”) come motore di un ingranaggio dove il senso di sé attende un segno di rinascita dal proprio cuore o dalla realtà, o forse da entrambi (“…Wait for a new day, a Messianic dawn…”).
E’ un lavoro che, come consuetudine della band, muovendo da fondamenta essenzialmente anthem-power, va a dislocarsi e viene dirottato su tutte le possibili frequenze, le latitudini e i linguaggi di un alfabeto che riunisce e razionalizza oltre tre decenni di melodia applicata alla musica rock.
Da una “I Know How You Feel” che ricama un bell’andante mid-tempo su un electric piano sound di schietta derivazione Supertramp, alla grandeur AOR di “Face On The Bridge” e “Judas” passando per le agili sovrapposizioni corali di “Reno”, si arriva al bellissimo epilogo di “Ghost of a Chance”, ovvero l’abc del brano che coniuga talento melodico (la scrittura vocale di Wetton) e alto gusto strumentale (il solo catartico di Howe alla steel-guitar sul crescendo esponenziale di tastiere). Wetton gigioneggia con liriche esortative e affabulatorie ma la musica sembra suggerire uno spazio segreto, una distanza nostalgica tra l’abbaglio della riuscita e una sincera flessione dell’intimo.