Ci sono pillole e pillole. A Neil Young, 66 anni di età, piacciono quelle psichedeliche. In realtà non si arriva a questa età facendo ancora così grande musica se si abusa di stupefacenti, anche se il canadese in vita sua non ha mai disdegnato certi abusi, per sua stessa ammissione. Oggi quelle sostanze, pillole psichedeliche comprese, sono un modo per far riferimento a un’epoca e a una stagione, musicale soprattutto, che “Psychedelic Pill”, il nuovissimo disco, il 35esimo della carriera, di Neil Young celebra ampiamente con un senso di malinconia incombente. Un disco che segna il ritorno dopo molti anni dei suoi accompagnatori preferiti, quei Crazy Horse che cominciarono con lui appunto in era psichedelica e che da tempo erano stati messi da parte. Si sa che quando Young lavora con il Cavallo Pazzo il risultato può essere uno solo: musica estrema, metallo urlante, infinite cavalcate chitarristiche. E qua ce ne sono di cavalcate chitarristiche visto che un paio di brani arrivano a quasi mezz’ora di durata e gli altri poco meno.
Successe una sera di diversi anni fa, durante un concerto italiano di Neil Young. Durante l’esecuzione di un brano in cui si stava impegnando in un lungo assolo di chitarra, Young si avvicinò pericolosamente al bordo del palcoscenico. Non cadde, ma improvvisamente fu chiaro a chi gli stava davanti che era come se fosse perduto in una trance. Non smise mai di suonare, ma andò avanti barcollando pericolosamente come se non avesse più cognizione di dove si trovasse. La musica però non si fermò di una battuta, riuscendo ugualmente a esprimere un uragano di incandescenti e allo stesso tempo dolenti note di chitarra, che poi è la cifra citaristica di questo musicista, assolutamente non dotato tecnicamente (non è Eric Clapton, per intenderci) ma capace di esprimere un tasso emozionale come pochi. Avevamo assistito in quei momenti a qualcosa che lui stesso chiarì durante una intervista: Young soffre sin dall’adolescenza di crisi epilettiche e in quei momenti in cui il cervello si squarcia, se sta suonando raggiunge dimensioni cosmiche conosciute solo a lui. Fu un momento inquietante ed esaltante allo stesso tempo. Ed è quello che accade per tutta la durata di questo nuovo disco, dove le cavalcate chitarristiche che durano quasi mezz’ora sono questo tipo di trip – senza pillole psichedeliche – che esplodono senza possibilità di stop. Fino a conclusioni terrorizzanti come quella di Walk like a Giant dove il batterista picchia disperatamente un ritmo conosciuto solo a lui e dove Young manda la sua chitarra a frantumarsi contro gli amplificatori. Non c’è più limite, sembra dire questo disco, il concetto stesso di canzone viene abusato e scavalcato. Ed è troppo tardi per fermarsi adesso, direbbe Van Morrison.
“Psychedelic Pill” si apre in modo ingannatorio, seppur rivelatorio: voce e chitarra acustica, un riff e un ritornello che rimandano per forza di cose al classico Hey Hey My My, quello del “il rock’n’roll non morirà mai”. E’ Driftin’ Back, ma solo pochi minuti e di soppiatto entrano dentro i Crazy Horse. Comincia un’orgia chittarristica di quasi trenta minuti, in cui Young vaga in un altrove sonico che a molti sembrerà noioso e auto indulgente. Ad altri, come il sottoscritto, spalanca le porte di un universo paragonabile a quello della musica classica dove una nota singola guida l’insieme e l’insieme è il tutto. Non c’è più appiglio a cui aggrapparsi se non lasciarsi trascinare nelle acque vorticose e limacciose della musica. Il suono della chitarra è denso e pastoso, richiama quello glorioso dei tempi di “Zuma”, così come l’andamento musicale è circolare e rallentato.
La differenza la fanno i Crazy Horse, gli unici musicisti capaci di interpretare questo approccio particolare dei molti gruppi che Young negli anni ha avuto con sé. Se provate a seguire singolarmente le parti di ognuno, troverete uno straordinario Frank Sampedro a costruire una montagna inesauribile di riff uno diverso dall’altro nel cercare di tamponare e allo stesso tempo spingere avanti Neil Young. Mentre Ralph Molina picchia in modo ossessivo e e monotematico sui tamburi, trovando invece un linguaggio tutto suo con cambi di tempo e svisate che sono il suo viaggio personale. Mettete tutto questo insieme alla chitarra di Young e capirete come è possibile si possa arrivare a trenta minuti di assalto sonoro senza stanchezza. Nell’insieme, sembra esserci solo Young, ma l’insieme è dato dalla costruzione di architetture soniche da parte di ognuno dei presenti che rendono il tutto affascinante e inquietante allo stesso tempo. In Walk like a Giant succede più o meno lo stesso, anche se con più furore sonico. Se Driftin’ Back infatti invitava a rifugiarsi nei giorni gloriosi della giovinezza, Walk like a Giant è il diario di una sconfitta, personale e generazionale: “Io e qualche amico, abbiamo provato a cambiare il mondo, volevamo renderlo migliore, eravamo pronti a salvare il mondo ma poi il tempo cambiò”. Ero un gigante allora, dice Neil Young: oggi cosa sono? Il brano è un assalto sonico furioso, dove le ferite dell’animo vengono scavate ancora più a fondo dalla chitarra in un turbinio reso solo più abbordabile da un coro doo woop e da Young che fischietta sopra le sciabolate chitarristiche.
Così è più o meno tutto il disco: She’s Always Dancing non è neanche più una canzone. E’ un refrain che ripete le stesse parole mentre la chitarra va altrove. La title track è offerta in due versioni: un psichedelica, stravolta da effettacci un po’ dozzinali, e una senza distorsioni che si rivela un bell’hard rock tosto e diretto (e anche di breve durata). Born in Ontario è un divertente brano dall’andamento country spigliato dove Young rivendica orgogliosamente le sue radici canadesi, mentre con For The Love Of Man, un brano che si sentiva in concerto già nel 1981, siamo dalle parti dello Young più cantautore classico in chiave semi acustica. Una melodia piena della malinconia debordante del canadese, come le foglie di autunno che si staccano nei boschi del grande nord. Twisted Road infine è un tributo agli eroi musicali suoi e della sua generazione, da Bob Dylan ai Grateful Dead. E a proposito dei testi, come nei suoi ultimi dischi essi sono sempre più ricchi di rimpianto per le occasioni sprecate dalla sua generazione, quella che voleva cambiare il mondo e invece ha cambiato poco o niente come lo stesso Young dice. Dall’altra parte, c’è sempre più tenerezza e riconoscenza per la sua famiglia. la moglie che gli sta accanto da oltre trent’anni, i figli handicappati avuti da due donne diverse, la famiglia insomma, come unica ancora di salvezza. Per un uomo che, a 66 anni, sente ancora uno spirito indomabile: “Ogni tanto quando le cose vanno male, piglio una penna, scarabocchio su un foglio, cercando di dare un senso alla mia rabbia”. Non è poco, anzi è tanto.