Ogni nuovo disco dei Muse contiene un azzardo e una sfida: sono davvero una grande band oppure sono una presa in giro? Giusto o sbagliato che sia, sono convinto che il trio guidato da Matthews Bellamy sia una delle più toste formazioni musicali dei nostri tempi insieme ai Mars Volta (mentre, purtroppo, non sono comunque esaltato dai pur divertenti e profondi Mumford and Sons). Sesto album della band, “The 2nd Law” prosegue su quella strada di modifica e variazione di quella originaria scommessa di spleen rock sinfonico che era il vero seme che rendeva “Showbiz”, “Origin of Symmetry” e “Absolution” dischi di assoluto valore e di originalissima presa sull’ascoltatore. Chitarre e pianoforti sono ancora e sempre nelle mani colte di Bellamy, aiutato questa volta da David Campbell negli arrangiamenti (è il padre di Beck, non quello della birra, ma quello di Loser). Diversissime nella loro radice le nuove Panic Station, Follow me, Save me e Big Freeze confermano l’universo depresso dei Muse, ma (un po’ come è accaduto nell’ultimo degli Smashing Pumpkins) esprimono qualche timido raggio di positività, soprattutto introducendo slstanziali variazioni allo standard hard rock e sinfonia che dal 1999 è marchio di fabbrica di Bellamy e soci.
I Muse di oggi esprimono crescita attraverso un percepibile bisogno di varietà e il nuovo disco lo dimostra, ma in un gioco adulto di caleidoscopi continui, non si capisce più se Bellamy e compagni abbiano Hendrix, Cobain, Chopin e Rachmaninov come punti di riferimento, oppure Freddie Mercury ed Eric Carmen. Maestri immortali e riferimenti poppeggianti, David Bowie e Nile Rodgers, citazioni elettroniche e addirittura ricorsi al dub, fanno sì che quella coerenza fantasticamente kitch di pezzi come Blackout e Butterfly and Hurricanes vada al diavolo, forse senza una convinzione ben salda di dove punti la barra del timone. Oggi c’e del funk e del soul, ci sono i Queen e George Michael, c’è il progressive e addirittura del pop radiofonico in questa nuova prova del trio britannico, sempre con chitarre sfacciate che emergono da melodie più o meno accattivanti, come nella Survival che la band aveva prestato ai giochi olimpici londinesi.
Ma “The 2nd Law” è un bel disco oppure no? Forse sì. Ma dietro questa personalissima incertezza ci sta il problema dell’età matura di certe rock band, del successo raggiunto, del lavoro in sala di registrazione, dei produttori più o meno esigenti, delle consolle a 64 piste. Il problema è che tutte le grandi band dei nostri tempi sono precise, nette, dirette e convincenti quando producono agli esordi senza secondi fini, senza costruzioni mentali, senza esagerare nella produzione e nelle alchimie da studio di registrazione.
Questo vale per il viscerale impatto retro di Muscle Museum (datato 1999) così come per la poderosa ambivalenza di Creep dei Radiohead (anno domine 1993). Dopo l’immediatezza degli esordi per le rock band parte il consolidamento, la riflessione, il prodotto ben confezionato, il prodotto pensato, complesso, superarrangiato. E qui le cose si trasformano in successo, in seguito e mitizzazione, con dischi che stanno in perfetto equilibrio, ma forse non hanno più la bella immediatezza dei primordi. Così questo nuovo disco dei Muse è pieno e ricco di cose da ascoltare, venderà vagonate di cd e trainerà tour e concerti oceanici. Abbastanza bello e sufficientemente interessante da essere ascoltato ad ogni età. A me, almeno, diverte, come sempre. Certo che l’ingenuità sconvolgente di Muscle Museum, con quel falsetto inutile e ridicolo, eppure cosi selvaggiamente unico, non tornerà mai più…