Certi fan della musica rock, come dice spesso Francesco De Gregori, sono un po’ dei talebani. Personalmente li definirei più vicini a certa tifoseria calcistica. Nel senso che vivono di etichette e regole non scritte, dove non bisogna mai trasgredire alla regola del “fandom”, ovvero la mia squadra è migliore della tua e tanto basta. Così è anche con i musicisti rock. Il caso di Jakob Dylan è emblematico: per il fatto di portarsi cotanto cognome, l’ultimo della nidiata del massimo cantautore di tutti i tempi non si sarebbe mai dovuto permettere di fare il musicista anche lui. Addirittura, ci fu qualcuno che gli rimproverò di usare il nome “Dylan”. Lui, poveretto, rispose che suo padre, nato Zimmerman, da decenni aveva cambiato dal punto di vista della legge il suo cognome in quel modo per cui non poteva certo assumere a sua volta un altro cognome che non fosse il suo naturale.



Ma nonostante queste spiegazioni, Jakob per molti rimane un usurpatore. E poco importa che nella sua ormai ventennale carriera non abbia mai inciso una canzone che ricordi in qualche modo quelle del padre. Anzi, per anni si è nascosto all’interno di una band dove nonostante fosse il cantante e l’autore totale dei brani, i dischi erano denominati con il marchio “The Wallflowers”. In un mondo, quello musicale, dove di nuovi Dylan e plagiatori vari è pieno, l’unico che non ha mai copiato Bob Dylan è proprio Jakob. La sua mappa musicale paga invece debito massiccio a un certo Bruce Springsteen, di cui ha sempre ricordato le atmosfere epiche e romantiche allo stesso tempo, e, come si scopre nel nuovo disco che segna il ritorno dei Wallflowers dopo quasi una decina di anni e due bellissimi dischi da solista, i Clash. Ma per chi lo conosce un po’ neanche questa è una novità.



Anni fa infatti raccontò in una intervista che il concerto che gli aveva cambiato la vita, facendogli venire voglia di diventare un musicista, era stato quello dei Clash che aveva visto un giorno a Los Angeles ancora ragazzino dodicenne. Non deve stupire allora che nel nuovo disco sia ospite Mick Jones, insieme a Strummer l’anima della band inglese, e che molte canzoni riprendano l’impianto musicale di quel gruppo. Non è solo infatti il singolo, già uscito da parecchie settimane, Reboot the Mission, infatti a suonare così, ma la struttura di parecchi altri pezzi. Un disco che suona come un potentissimo album di urban rock capace di raccogliere l’urlo della strada tanto quella della Los Angeles di Jakob Dylan che quella della Londra dei Clash. E se nel brano citato a sottolineare questa linea che si collega direttamente a un disco ai suoi tempi rivoluzionario e innovativo come fu “Sandinista!” con quel groove massiccio fatto tanto di ritmi hip-hop che di riff tipicamente rock’n’roll c’è “quel” Mick Jones a dare manforte creando una gioiosa e irresistibile scorribanda piena di ritmo, sono anche brani come Hospital for Sinnners o Misfit and Lovers (anche qui c’è MIck Jones) a fare altrettanto.



Brani in levare, con tutta quella urgenza e quella spontaneità che apparteneva ai migliori Clash. Un disco tributo dunque? No, perché Jakob è autore dotatissimo, che solo l’ingombrante cognome non ha permesso si potesse notare ne modo adeguato. Anche in questo disco, molto meglio di quanto accadeva nell’ultimo lavoro a nome Wallflowers, sa infatti tirare fuori melodie uniche, fresche e accattivanti dove l’eco springsteeniano è più vivo che mai. Diciamo allora una sorta di “Springsteen meets The Clash” quello che salta fuori da questo “Glad all Over”, ma impreziosito dal songwriting eccellente di questo ormai 42enne artista. E un brano straordinariamente bello come Won’t Be Long (Till We’re not Wrong Anymore) diventa allora proprio un classico alla Springsteen, qualcosa che, ci scommettiamo, il Boss de New Jersey avrebbe amato aver composto lui. C’è la stessa epicità travolgente che dischi come “Darkness” o “The River” sapevano comunicare: il miglior rock’n’roll romantico ed esaltante, quello che ti fa venire voglia di saltare sulla scrivania del tuo ufficio e gridare che sì, una vita migliore è possibile. 

Con le sue chitarre tirate al limite, i riff intricati che ti esplodono in faccia, il pestare ossessivo della batteria, la provocazione e l’urgenza incontenibile del cantato di Jakob, basterebbe una canzone come questa a dire che il rock’n’roll può ancora salvarci la vita. Stesso effetto lo fa anche la bella rock ballad Love Is a Country. Tutto il disco è in questo senso godibile, sorta di Radio Clash del terzo millennio, come a voler riaprire quelle frequenze che Joe Strummer aveva colto nella giungla urbana tra Brixton e Harlem: The Devil’s Waltz con il suo andamento cupo e ossessivo fa venire in mente un autentico ultimo valzer con il demonio, per le strade di qualche ghetto di Los Angeles, città degli angeli, ma in realtà da tempo città del diavolo con la sua violenza dilagante. E’ un pezzo brutale, un assalto sonoro all’ultimo riff, ma così sono la gran parte dei pezzi. E’ certamente il disco più rock nel senso stretto che i Wallflowers abbiano mai fatto, con una ritmica implacabile che lascia poco tempo per riflettere. D’altro canto i tempi in cui viviamo non possono che far scaturire una musica del genere. Anche se in Reboot the Mission insieme a Mick Jones, Dylan lancia segnali di speranza: riavviamo la missione, riapriamo le porte, abbattiamo i muri. Che è quello che i Clash avevano sempre fatto. Una volta Jakob Dylan disse che quello che apprezzava dei gruppi rock quando aveva 12 anni era l’atmosfera da gang e la capacità di comandare il mondo. Ed è quello che ha cercato di fare in questo disco. D’altro canto se un disco non lo si fa con la presunzione di cambiare il mondo, cosa che regolarmente non avviene, ma questo è un altro discorso, cosa lo si fa a fare?

 

C’è magari bisogno di un paio d’ali per fare ciò. E’ quello che Jakob Dylan si chiede nel pezzo che chiude il disco, One Set of Wings non a caso anche il brano meno rock e dove appaiono finalmente delle chitarre acustiche. La domanda è però questa: chi ci darà oggi queste ali d’angelo per sollevarci sopra a una realtà che appare insormontabile? Reboot the mission, e forse anche questo diventerà possibile. Anni fa, intervistando Jakob, mi disse che l’unica cosa che lo interessava era scrivere canzoni di cui essere orgoglioso per il resto della sua vita. Aggiungendo che il momento più bello della sua adolescenza era stato quando riuscì a vedere i Clash in concerto. Suo padre, mi disse, non aveva mai commentato i suoi gusti musicali. Un giorno però lo trovò intento a leggersi le note di copertina di “London Calling”. Può essere orgoglioso di gran parte di quello che ha scritto nella sua carriera, Jakob Dylan. Se non altro perché ci ha reso orgogliosi di nuovo di essere dei rock fan.