C’è qualcosa di molto interessante nella provocazione lanciata (o meglio rilanciata) in questi giorni in occasione della recensione dei nuovi album di Beth Orton e Ricky Lee Jones. Lì si rimarcava qualcosa di evidente da lungo tempo anche in ambiente nazionale. La musica al femminile – a tutti i livelli, sia sotto il profilo musicale che delle liriche – da un buon numero di anni impressiona e colpisce spesso e volentieri molto di più di quella proveniente dall’universo maschile, soprattutto a livello di nomi nuovi. Certo ci sono le dovute eccezioni ma resta l’evidenza di come a partire dalla decade dei ’90 il microcosmo sfaccettato e inquieto dell’altra metà del cielo sappia raccontare e provocare molto di più e meglio su quello che si muove ad ogni livello, altezza e profondità nella realtà, nella sua lettura e nei suoi continui rivolgimenti.
Non fa eccezione in questo senso la cantautrice americana Aimee Mann da Richmond, Virginia, ed anzi l’appartenenza a quel mondo è solo lo spunto per coglierne tutta l’essenziale originalità di contributo a quello più ampio dell’umanità non come puro genere ma come intreccio di singole umanità uniche e irripetibili. E splendidamente irripetibile è innanzitutto lei, alta, bionda, allampanata e sottile figura del rock e della sua particolare rinascita a cavallo tra anni ’90 e nuovo millennio.
Distintasi nelle fila del discreto combo pop Til Tuesday per il suo naturale e limpido mezzosoprano, solo cinque anni più tardi dopo lo scioglimento del gruppo si avventura nella sua carriera solista sterzando su uno storytelling guitar rock di ascendenza sixties-new wave che coniuga graffio sonoro figlio dei tempi con una fresca verve di impronta personale. Il tutto si trasfonde negli album “Whatever” (1993), e “I am with Stupid” (1995), dove sono già riconoscibili postura vocale e ironia pungente frammista a momenti intensi e melanconici come “4th July”, primi esemplari di un grande e inconfondibile trademark artistico.
Quasi cinque anni di silenzio ed ecco la maturazione decisiva con il capolavoro “Bachelor No. 2 – The Last Remains of Dodo” (2000), lavoro variegato, stratiforme e movimentato dove il taglio espressivo assume connotati ora fortemente drammatici ora sferzanti e polemici. Tra canzone d’autore, folk-rock, brevi incisi western-saloon e delicate fioriture, il lavoro alterna ballad malinconiche e aggraziate come “Red Vines” a spasmodici, memorabili e viscerali mid-tempo rock come “Deathly”, fino al dolente slow-grunge di “Save Me”. Lost in Space” (2002) è la conferma che abbassa di poco il livello complessivo e vede nelle coloriture analogiche di sintetizzatori seventies un elemento che diventerà via via sempre più distintivo nella musica della nostra. Il tutto sarà pressoché eguagliato quanto a forza, immanenza e impeto, dal vigore di “@#%&*! Smilers” (2008), altra preziosa fucina di contaminazioni tra rock d’autore e patrimonio popolare.
“Charmer” arriva a quattro anni da quest’ultimo e se non eguaglia l’estro e la carica del grande precedente, può dare ragione di sé come di un buon disco (e di dischi anche solo buoni non è che il panorama musicale sia pieno). Un disco che quanto a confezione sonora va a ripescare il piglio più immediato degli esordi rivestito dalle particolari atmosfere di quel power-pop frequentato da band quali Blondie, Cars e Pretenders seconda maniera.
Certo musicalmente l’album soffre a più riprese di momenti dove l’autrice lascia trasparire un desiderio di riappropriazione del proprio canzoniere in forma analitica e stanziale tradendo un eccesso di punteggiatura e di subalternità a strade già battute. “Soon Enough” e “Barfly” si rifugiano nella panacea della rassicurante ripetizione di tragitto, “Living a Lie” è una rock-ballad che, supportata dal cantato tutt’altro che memorabile dell’ospite James Mercer si snoda in maniera tiepida e quasi pigra. “Slip and Roll” non va oltre una riedizione meno ispirata di grandi antecedenti come “Satellite” o “Phoenix”. Quasi una rassegna delle puntate precedenti senza la cruda e asciutta tensione dei grandi momenti.
Dall’altra parte c’è del buono e anche dell’ottimo con punte di vena poetica non indifferenti. In apertura la curiosa andatura della title track dove la nostra dialoga con la smorfia bizzarra del lead synth, quella spigliata di “Crazytown”, la melodia agrodolce e ironica di “Labrador” fino alle rigeneranti sortite in territorio folk-rock. Una “Gumby” che effonde un sollievo invitante e materno con le sue armonie vocali che evocano arie a cavallo tra i ’60 e i ’70; il tenore da filastrocca popolare di “Red Flag Diver” e l’elegante tratto sommesso di “Disappeared”, autentico pezzo di bravura nell’uso staccato delle vocali del canto a rendere un malinconico mood danzante.
Non manca anche un brano più duro come “Gamma Ray” tra chitarre nervose e una citazione aritmetica dell’ostinato di synth dei Genesis di “Abacab”. Un disco strano e discontinuo che nella download version di i-tunes in “Brother’s Keeper” svela una bellissima bonus-track che rivisita il tenore delicato e antico di certe ballad passate dai sottili richiami honky-tonk.
E le liriche? Sotto questo profilo è possibile scorgere nella narrativa della Mann un percorso che procede per gradi e i cui presupposti si possono sorprendere sin dai tempi di “Bachelor no. 2”. Dall’impietoso ritratto della inconsistenza del positivismo connaturato al way of life americano pre-11 settembre, alla sconfessione della capacità dell’umano di essere all’altezza delle proprie grandi aspirazioni sul piano personale e affettivo, fino al vuoto di senso che scandaglia il quotidiano delle vite di chi si trova fuori dai giochi di potere (in particolare negli album “The Forgotten Arm” e “@#%&*! Smilers”).
In questo lavoro la cantautrice americana riaffila (a partire proprio dalla title track “Charmer”) le sue armi ponendosi con ironia e partecipazione dal punto di vista di chi fa della propria vanità il presidio per un posto nella società, sposando in un certo qual senso l’ottica dei cosiddetti fascinosi sgomitatori, dei narcisisti indefessi che tanto sembrano essere contigui a un’idea come quella del potere alienante e pigliatutto di “Bachelor no. 2” (“anche mio marito è un grande osservatore dei narcisisti”). Ne passa in rassegna pro e contro, fascino e malizie mutuando quell’approccio all’interno delle tematiche a lei care come fedeltà e rapporti affettivi (“Labrador” e “Crazytown”) in una sorta di continuazione di un percorso che lambisce la personale trasposizione di un seme di teatro canzone. Chissà che un giorno la Mann non si possa cimentare in qualcosa del genere …