Qualcosa sta cambiando, lo si sente nell’aria: per una sera le nubi di smog di Milano si sono diradate e hanno lasciato spazio alla luce della musica, quella vera, quella autentica. Ed essa ha riempito uno spazio non così ampio, un tempo non così lungo, le aspettative di poche persone, se teniamo conto del fatto che il concerto di ieri sera all’Alcatraz era sold out già da tempo, e che i Bon Iver (sì perché da ieri sera è ancora più evidente come loro siano una band e non solo la mente geniale di quel boscaiolo di Justin Vernon) sono abituati a ben altre quantità di pubblici. Ma qualcosa sta cambiando perché all’Alcatraz c’era il pubblico delle grandi occasioni, quasi 3mila giovani come se qua ci fosse stata una star navigata di quelle che ci vengono spesso, dai Lou Reed ai Nick Cave a Patti Smith.
Introducono la serata The Staves, un trio inglese di Watford, tre sorelle, una chitarra, un mandolino (a volte): minimal folk da vere intenditrici, semplice ma mai banale, sfrutta le capacità vocali a disposizione delle tre ragazze per creare un prodotto sincero, sebbene poco appetibile a livello discografico, che scalda i cuori dei presenti. E il tempo passa così, cullati da voci angeliche in uno scenario a dir poco surreale, con tendaggi penzoloni sullo stage e poco altro, almeno finché non viene allestito il palco per Bon Iver, che poi decide (decidono) di presentarsi alle 9.45.
Poco importa. L’attacco di Perth è sconvolgente e risveglia i cuori assonnati dei presenti che vengono letteralmente investiti dalla potenza bilaterale delle due batterie, delle tre chitarre, del corno, delle trombe, del basso, del sax tenore (!) e delle tastiere. Justin si accanisce sugli effetti della sua chitarra, alla ricerca del kairos per farla esplodere insieme al resto della band, e trova l’occasione nel delirio rock psichedelico (visivamente) in coda a Brackett, Wi, che dà al pezzo la motivazione della scelta di metterlo in scaletta. E’ un climax emotivo che ha nell’accoppiata Holocene e Towers il fulcro di immedesimazione del pubblico, e nella canzone successiva il presentimento che c’è qualcosa di più della semplice riproposizione live di canzoni registrate in studio: Blood Bank è riletta senza timore in chiave rock, e sembra piacere parecchio a tutti, perché si ha la consapevolezza di essere nel posto giusto, mentre fuori è quasi novembre, e dentro è dicembre, ma siamo in casa, davanti ad un camino, con gli amici. Dopotutto, è questo che ci viene proposto: un “buon inverno”, la cui aspettativa non viene delusa anche quando tutti scendono per un attimo dal palco, e Justin rimane da solo… a conversare col pubblico. Cita Jeff Tweedy, dicendo “music is my saviour”, sì perché “sono davvero fortunato a poter fare il lavoro che voglio”: un classico, certo, ma Justin ha tra le mani qualcosa di immensamente più grande di lui, e lo sa, e ha intuizioni per afferrarlo… è davvero alto lui.
E indossa una bandana, una camicia scura, pantaloni più chiari, e canta Re: Stacks, ed è il momento ‘commozione’: una voce, una chitarra, non serve altro, è essenziale. E l’essenzialità, è il folk. Lo stesso discorso vale per Flume, anch’essa tratta dal primo album For Emma, Forever Ago, a ribadire la bellezza della semplicità che un certo tipo di musica porta con se per natura.
Un primo finale è la trascinante Beth/Rest, dove la voce armata di vocoder sembra infiltrarsi tra il pubblico e prendere per mano chi si è smarrito: una sicurezza disarmante quella che riesce a mostrare questo trentunenne del Wisconsin sul palco, e un alchimia con il resto della band che solo con i Fleet Foxes finora sembrava di aver visto.
I suoi non sono inni da stadio, e spesso i testi delle sue canzoni sono criptici: non vai a sentire Bon Iver per cantare (e l’età media ieri sera non viaggiava sopra i 28 anni), ma per ascoltare — facoltà che stiamo smarrendo, occasione che stiamo perdendo; perché, in fondo, è soltanto ascoltando ciò che ci viene proposto che possiamo comprendere (almeno in parte) l’intenzione creativa, possiamo cominciare a conoscere l’oggetto del nostro ascolto. Eppure, ancora una volta, veniamo sorpresi dalla modalità dell’altro: le ultime due canzoni possiamo cantarle anche noi, ci dice Justin, e questo come a dire: “voglio condividere con voi la bellezza di cantare questi brani che ho composto”; questo sono stati Skinny Love e For Emma, Forever Ago in chiusura del concerto.
Bon Iver è il protagonista indiscusso della scena folk rock cosiddetta indie moderna, è un innovatore, ma rispetta la tradizione; è un uomo dei boschi, ma quando prende in mano la chitarra elettrica, taglia in un colpo solo i tronchi degli alberi; è un poeta, e quindi ha capito qualcosa in più sulla realtà; è un genio, e quindi vive di conseguenza.
(Tommaso “Pacha” Pavarini)