Quasi dieci anni dalla scomparsa del grande Giorgio Gaber ed ecco l’omaggio monumentale che si poteva prevedere come fin troppo facile obiettivo della lunga processione dei tributi, del never ending pilgrimage al cospetto del mirabile compianto. In apparenza una delle innumerevoli, roboanti e sfiancanti rievocazioni, l’inevitabile vulgata del geniale precursore della canzone in assetto teatrale, rimasto nella memoria nazionale e divenuto patrimonio in qualche modo condiviso nella cultura di un popolo.
“Io ci sono” si presenta in questa veste. Un omaggio in tre cd affidato ad un manipolo di nomi tra i più in vista della scena musicale italiana pop, rock e d’autore (oltre a due dvd di rarità assortite ritraenti performance anche dello stesso Gaber), insomma il classico espediente che può dischiudere il magnifico azzardo o la grande mistificazione sotto parvenza di cordiale amarcord.
Cos’è e cosa porta dunque di stimolante e provocatorio questa ampia rassegna di artisti messi insieme in questa mastodontica collezione? Se si guarda a quanto offerto negli anni passati dal lavoro alacre e certosino della Fondazione Gaber le premesse sono ottime, forse eccellenti. Il benemerito ente-custode ha inanellato una serie di pubblicazioni soprattutto sul puro versante live (memorabile in particolare lo straordinario recupero del Teatro Lirico 1980, primo decennale del teatro canzone del Signor G) da suscitare sincera e gioiosa ammirazione. Documenti sopiti nella memoria e a lungo attesi in una ideale library delle bellissime cose perdute.
L’operazione, se mi si passa il paragone, può essere accostata a un grande meeting di chef presso l’antico laboratorio di cucina fondato dal grande artista, primo degli chef di questo grande esperimento di canzone narrativa dove la stessa è una pièce che racconta dell’uomo, del mondo e dell’intera vita senza corsie preferenziali, senza panacee, portandone in scena gioie, aspirazioni, illusioni e soprattutto dolori e miserie come test probanti di una rinascita sorpresa dentro le cadute più profonde e apparentemente insanabili.
Il contributo di ciascuno di questi artisti – negli episodi più belli e comunque nella gran parte di questo lavoro – è tanto simile ad una visita di amici vecchi e nuovi presso quell’antica cucina fatta di immensi locali e supporti in pietra. Il proscenio del festival Gaber funge un po’ da questo grande laboratorio dove i vari musicisti portano in dote la loro personale variazione creativa sui numerosi piatti del grande chef che sono entrati nella tradizione della storia della gastronomia italiana. Chi non può essere presente direttamente invia il proprio contributo illustrando in dettaglio le variazioni sul tema. Esattamente come il cibo che si fa cultura e patrimonio di un popolo, qui la musica si fa cultura da gustarsi in punta di palato e nel silenzio di una sorprendente scoperta. Non una abbuffata, ma una educazione ad un rapporto pieno e umano con il prodotto, quasi una sua inedita riscoperta artigianale.
E squisitamente artigianale è la confezione sonora di questi tre CD che compongono l’opera. Sia essa musica strutturata ed elegante o più scarna e istintiva, sia essa cucina ricca o povera, la veste sonora è quella diretta e artigianale degli spettacoli di Gaber catturati su CD. Con le imperfezioni tecniche, gli ammanchi di suono, i fruscii, gli alti e i bassi del formato “official bootleg” che ne hanno caratterizzato la discografia teatrale.
Una immediatezza piena e totale comune sia alle registrazioni live estrapolate dal Festival Gaber (la maggior parte) che ai contributi in studio inviati da chi non ha potuto essere personalmente presente al noto evento dedicato al nostro. Dall’apertura a mo’ di sigla della “Ciao ti dirò” rilasciata in duo da Gaber e Celentano nello show del molleggiato targato 2001, inizia una strana e affascinante avventura tra i solchi dove ci si può imbattere in contributi di gran classe come Le strade di notte di Baglioni, il Vecchioni de La ballata del Cerutti, lo Jannacci che offre una versione sussurrata e strascicata di Una fetta di limone o i sempre incisivi Finardi deI reduci e De Andrè jr. di Buttare lì qualcosa.
Sul versante melodico tradizionale risalta la maestria di un Ranieri alle prese con la croonerie nazionale diPorta Romana, la bizzarria pittoresca dell’ultimo Dalla in Torpedo Blu e il garbo ben bilanciato del Morandi diFar finta di essere sani, per non dire degli inediti e piacevoli D’Alessio e Emma. Il primo alle prese con il periodo francese del Gaber di Ora che non son più innamorato, la seconda che rilegge La libertà in una rotta mediana tra Nannini e Ferri limitando al massimo i ricorrenti eccessi di sgolamento, a dimostrazione che, a volerlo, i presupposti per una crescita artistica ci sarebbero eccome.
Sull’altro versante ecco un trasbordo verso lidi e sapori inediti, con un Ruggeri che offre una gran versione rock di Un’idea dal tiro tipicamente eighties, un Cammariere a colorare Due donne di tinte confidenziali e placidamente malinconiche alla Bruno Martino e una Le mani nell’impareggiabile raschio vocale stralunato di Nada. Dulcis in fundo uno strepitoso Paolo Jannacci che catapulta in variopinti lidi ragtime una versione strumentale per solo piano di Com’è bella la città.
Il secondo disco si addentra nel frangente nevralgico del teatro canzone a cavallo dei settanta e degli ottanta con una galleria di plasmatori di voci e suoni in larga parte di altissimo livello ma tra i quali un quartetto si segnala per il particolare stato di grazia che ne segna il contributo. La PFM offre una spumeggiante resa del tremendo vortice lirico-sonoro di Quand’è moda è moda tra fioretti chitarrisitici mussidiani, staffilate dylaniane e lirismo art-rock.
Non da meno un magistrale Van de Sfroos che rilegge in codice folk-rock Pressione bassa destrutturandone la melodia in una interpretazione vocale che aggancia sentori di bruma nebbiosa e pietanze autunnali, mentre Paola Turci conferma nella resa intensa e feroce di C’è un’aria l’incredibile gamma espressiva delle proprie corde vocali. In fondo a questo filotto di brani una Patti Smith immensa nell’imprimere alla traduzione inglese di Io come persona (I as a person) tratteggi da llasaga di Sacco e Vanzetti.
Per il resto l’ottima voce stentorea di Mietta nel rock blues di Isteria amica mia, il taglio tra il cantautorale e l’eccentrico di Morgan in Benvenuto il luogo dove, quello pop confidenziale dell’Antonacci de I soli e quello cantastorie rock di un Ligabue che si fa ispirato lettore di una Qualcuno era comunista addizionata di un vero e proprio chorus cantato.
Il terzo e conclusivo disco si rivela il migliore per intensità e per elementi di sorpresa rispetto ad artisti che rivelano in questa sede qualità talora sottostimate talaltra tenute ben nascoste da esigenze di mercato. Accade così che un Mengoni snoccioli una irresistibile versione a la Jarreau di Destra-Sinistra, che Noemi si arrampichi sicura e graffiante sul bel cadenzato american folk de Il grido, che Mario Biondi renda ancora più sfacciato, divertente e piacevolmente cavernoso il divertissement blueseggiante de Il corrotto. E dal canto suo il J-Ax già brillante protagonista nel primo disco della rilettura combat di “Eppure sembra un uomo”, propone qui insieme agli Articolo 31 una marpiona e beffarda Io non mi sento italiano.
Poi? Poi ci sono i grandi. Quelli tali da lungo tempo, quelli recenti e quelli insospettabili. Il Samuele Bersani solido e velenoso de Il conformista, Il Pacifico sempre più dispensatore di note agili di Chissà, la straordinaria forza elegiaca del Battiato de La parola io. E ancora il gustoso Non arrossire barocco di Cacciapaglia e l’ispirata impronta autoriale del Ron di Quando sarò capace d’amare.
Ma ci crederete che ancora le donne si confermano interpreti con quel quid di intensità in più dei pur grandi esponenti del sesso forte? Se si considerano le straordinarie performance dei primi due dischi, quelle che vanno a consacrare questo epilogo lasciano letteralmente a bocca aperta. Che dire altrimenti della invincibile delicatezza della Pausini di Non insegnate ai bambini (a conferma che se avesse un vero repertorio farebbe sfracelli)? O dei riflessi tenui e ambrati della Casale de Il desiderio? E non merita forse più di un sussulto del cuore la sottovalutata e ancora oggi misconosciuta Andrea Mirò in una scura, posata e malinconica Il luogo del pensiero?
E già che siamo in tema di sottovalutazione ho deciso di lasciare per ultima la più intensa ed emozionante performance di questo omaggio. Syria, spesso e a torto dimenticata, sminuita, messa all’angolo come artista meramente pop (e qui, signori, sarebbe d’obbligo andarsi ad ascoltare la qualità pop che l’artista romana sa generare). Se io sapessi è l’interpretazione che chiunque abbia passione per la grande musica dovrebbe approcciare. Andate ad ascoltare con la massima cura la concentratissima immedesimazione con cui la nostra fa squillare e vibrare le ascese più drammatiche della fase vocale, un’immersione di pura arte che può e deve accendere in chi sia leale un moto di meraviglia e di ringraziamento.
Se il grande laboratorio raccolto in quest’opera può lasciare in dote una testimonianza inaspettata che colleghi il genio di Gaber ad una diretta permanente con l’urgenza presente, Syria rappresenta forse più di altri nel qui riunito consesso artistico, questo prezioso e inestimabile tramite. E la vulcanica resa di Mina de Lo Shampooin veste di ideale sigla finale sembra suggellare la bellezza di quella continua scoperta di un autore che invia tuttora sulla terra strani angeli incantatori e messaggeri che seguitano a servire in tavola la sua grande arte. E tutti noi siamo invitati.