Tristan und Isolde ha inaugurato la sera del 18 novembre la stagione 2013-2014 della Fenice. L’azione in tre atti di Richard Wagner non tornava in laguna dal 2002 quando, però, è stata eseguita in forma di concerto al piccolo Teatro Malibran. A La Fenice non si vedeva dal 1993-93, una produzione molto tradizionale di Micheal Hampte, proveniente dall’Opera di Stato di Colonia. Siegfried Jerusalem era quasi alla fine della carriera e, quindi, dominato, sotto il profilo vocale, da Gabrielle Schaunt e Hans Sotin. Da Mark Janowski ci si poteva aspettare una concertazione puntuale e poco di più.
Oggi, per il bicentenario della nascita di Wagner, La Fenice ha fatto le cose davvero i grande. Merita un DvD di qualità. In primo luogo, la concertazione di Chung è solo leggermente dilatata (rispetto a edizioni di riferimento come quella di Karajan); nel complesso l’opera dura circa una mezz’ora di meno rispetto alla versione scaligera di Barenboim. Non disponendo di una buca vasta come quella della Scala, Myung-Whun Chung fa economia di strumenti, ma le dimensioni relativamente piccole de La Fenice rendono il suono morbido e rotondo, ed esaltano le arpe, i violoncelli ed i fiati. E’ un Tristan languido e dolente. Ian Storey è cresciuto vocalmente e scenicamente rispetto all’edizione della Scala del 2007: affronta quasi con spavalderia l’impervio terzo atto. La vera sorpresa è Brigitte Pinter, al debutto nel ruolo; una Isolde giovane e statuaria, con vocalità da soprano “assoluto” e capacità di ascendere con facilità alle tonalità alte e discendere con pari ease a quelle gravi; nel pesantissimo primo atto (per le due protagoniste femminili), la affianca perfettamente la Brangania di Tuja Knithila. Richard Paul Fink è un Kurnewal atletico e pieno di energia. Attila Jun un Re Marco perfetto nella profonda vocalità ma relativamente poco espressivo nel tormento per il doppio tradimento (della giovane sposa e del nipote prediletto). Si sono fatti cenni alla drammaturgia: è un Tristan atemporale, pur se lo scozzese Paul Curran, il regista, ne esalta la dimensione nordica, con un”azione” interiore trasmessa, però, efficacemente dagli sguardi dei protagonisti. Belle le scene astratte di Robert Innes Hopkins (autore anche dei costumi atemporali). Efficaci le luci di David Jaxques.
Tristan è una delle opere di Wagner più studiate sia per le sue radici filosofiche sia per la sua importanza di battistrada alla musica moderna, fino alla dodecafonia. C’è, però, un sostrato geo-politico poco trattato e che risulta chiaro dalla drammaturgia di questa edizione. Isolde – ricordiamolo – è una “selvaggia” giovane principessa irlandese costretta alle nozze con l’anziano Re di Cornovaglia e d’Inghilterra, Marke, il cui nipote preferito, Tristan, è a qualche titolo signore di Bretagna. Il giovane viene chiamato “casto Tristan” e tale resta anche nella lunga notte d’amore del secondo atto in cui i due innamorati appena si sfiorano nella convinzione che il vero amore si ha annullandosi insieme nell’al di là. Il primo atto si svolge in navigazione tra Irlanda e Cornovaglia, il secondo nel giardino del castello regale ed il terzo in Bretagna.
La puntuale analisi comparata delle fonti svolta da un grande storico francese, Joseph Bédier, indica come i manoscritti di Gottfried von Strassburg, il poema Sir Tristrem ed i poemi composti da tale Roberto su commissione di re Haakon V di Danimarca – a cui attinse in vario modo Wagner per l’”Aktion” – avevano un significativo sottostante politico: il complicato mito di Tristan und Isolde non si basa su una vicenda di corte da troubadour (come i vari Paolo e Francesca e Lancillotto e Ginevra) ma racconta un tentativo di riassetto, ove non d’unificazione, politica dell’ampia regione del Nord Europa che si estende dalla parte settentrionale della Francia alle Isole Britanniche ai lembi della Scandinavia. Compare anche una moneta unica per la regione. In breve, una mitizzazione della guerra dei 100 anni, vissuta dai francesi tramite le vicende di Giovanna d’Arco e dai britannici tramite quelle, immortalate da Shakespeare, di Enrico V. Il disegno, o piuttosto il sogno, geopolitico, costruito, da uomini, a tavolino, su un intreccio di matrimoni (nonché di guerre) crolla quando la “wilde, minnige Maid” si inserisce in questo universo al maschile. Quindi, un Wagner, geopoliticamente nordico e molto protofemminista. Questa linea di lettura è palese nell’edizione presentata a Venezia in occasione del bicentenario:la regia di Paul Curran, le scene ed i costumi di Robert Innes Hipkins e le luci di David Jacques ci pongono in un mondo chiaramente nord-europeo in cui l’accordo (per la pace e l’unità) raggiunto da uomini di varie ‘genti’ (tutte comunque nordiche) viene messo a repentaglio dall’ingresso , nella scena anche politica, della ‘selvaggia’ giovane principessa.
Una curiosità. Ruth Berghaus , per decenni regina della Staatsoper unter den Linden di Berlino, per decenni ha prodotto un Tristan, tollerato in Germania Orientale ed esportato a Bologna alla metà degli Anni Novanta. Alla geopolitica dava un’intonazione che oggi si chiamerebbe gay : il grande regno nordico sarebbe stato progettato da Re Marco, Tristan, Kurnewal, Melot – tutti uomini legati da relazioni particolari. In questo club, irrompe la “selvaggia principessa” . E salta tutto.