E’ fatto piuttosto condiviso che la musica italiana (e non solo quella) sia alle corde. Pur lasciando il tempo che trovano le generalizzazioni, per molti versi si deve riconoscere che è proprio così, o – volendo metterla in maniera scherzosa – è dalle corde che si può ripartire. Dalle corde degli strumenti musicali secondo l’accezione più genuinamente acustica del termine, nella specie chitarre e violoncello. Queste e una spruzzata di dolci cenni d’organo appoggiati da qualche soffice percussione, sono protagoniste del debutto in note del cantautore milanese Hamid Grandi.
In un mondo musicale contrassegnato da un impiego schizofrenico di modelli e contro modelli per la creazione di replicanti da laboratorio (si pensi alla ricerca impazzita di nuove cantanti alla Houston o alla Winehouse o sul fronte maschile di nuovi U2), nessuno naturalmente pensava di esplorare e approfondire le tendenze più defilate e meno omologate di quel cantautorato italiano che oggi è collocato e tenuto a bada in un mondo parallelo. Ascoltando Grandi e la verve fresca e pungente che emerge dai solchi del suo lavoro, balza alla memoria un riferimento autorevole come Enrico Ruggeri, che nell’universo cantautorale è stato a lungo impareggiabile alfiere nel rappresentare il cosmo umano con finezza psicologica e una nutrita dose di intuizioni musicali forti e multi direzionali.
E’ questa la rotta seguita dal nostro ed è quella immersione cosmopolita del Ruggeri anni ottanta che sembra rivivere in questo disco che si avvale delle forme acustiche e artigianali della più recente musica nostrana d’autore. Un disco che piazza in apertura un quartetto di canzoni che schizzano agili marcando differenti umori. “Casomai” va al rintraccio e all’approfondimento di quel Ruggeri che in “Beneficio d’inventario” e “Paranormale” appariva conteso tra polka e comedie. Così come “Il criceto” rinnova i fasti di quella nouvelle vague cabarettistica da mitteleuropa imposta a livello italiano a partire dai Decibel di “Contessa”.
C’è dunque l’esplorazione di diverse facce dell’amore (come nelle parole di presentazione dell’autore), c’è un amore musicale – conscio o meno che sia – ma anche di più, c’è un vaglio approfondito e personale di quella tendenza che partendo da Rouge va a sfiorare altri grandi dimenticati come Fanigliulo tanto per dirne uno, e ancora c’è la preziosa direzione di un’ottima guida musicale dei giorni nostri come Giovanni Rosina (tastiere). Si ascolti l’ironia agrodolce di “Questestate” che vede il più classico dei dialoghi tra le corde della chitarra del nostro e del violoncello di Alessandro Santaniello. Quest’ultimo è poi dominante nel moto perpetuo de “In cielo e in terra”, drammatica cronaca quotidiana di racket internazionale sul corpo femminile che mescola cenni cameristici e levantini.
C’è un interessante embrione di nuova direzione per la musica d’autore da far crescere e su cui scommettere. Certo non si può tacere una certa sfasatura vocale/compositiva che emerge nella parte centrale del disco che tradisce ancora qualche ingenuità, ma tutto si ricompone e trova una buona e felice soluzione nella sua parte finale, con il bell’andante da cantastorie di “Regalo la vita” e la satira giocata in maniera quasi sdrammatizzante di “Click”.
Chiude il tenero e arioso bozzetto – dedica alla neonata figlia – di “Quand’è miracolo” dove l’emozione di un presente che travolge ingaggia una lotta con l’incerto e misterioso futuro della creatura sul filo di voci ora vicine ore distanti.
In definitiva un esordio che lascia intatta la necessità di un lavoro da continuare ma i cui frutti segnano già la direzione verso cui convogliare ricerca e sforzi.