“Ci vediamo lungo la strada, che ne siamo degni”: così mi salutò una sera Francesco De Gregori sulla porta di un camerino, anzi un “camerino già vecchio tra un lavandino e un secchio tra un manifesto e lo specchio”, per citare una delle sue canzoni più belle, perfetto ritratto della vita on the road. Per vivere sulla strada, bisogna infatti esserne degni, non è da tutti. Vivere sulla strada significa vivere con il cuore aperto, continuando a seguirne il desiderio, rinunciare a fermarsi alla prima risposta che possa appagare, perché risposte del genere non bastano mai. Siamo fatti per stare sulla strada. La vita è una strada, un cammino, verso ciò che ci completerà, “esperienza e mistero per tutta la strada” come dice lo stesso De Gregori nella canzone che intitola il disco, l’opposto di quanti dicono che siccome nulla potrà colmare i nostri bisogni allora occorre eliminare il bisogno, che è quello che la società moderna, anche quella virtuale della Rete, ci dice tutti i giorni. 



“Sulla strada” è anche il titolo del nuovo disco del cantautore romano, a quattro anni dal suo ultimo lavoro in studio, ma non quattro anni di silenzio. Perché negli ultimi quattro anni, ma come sempre nella sua carriera ultra decennale, De Gregori non è stato fermo, ma sempre “sulla strada”: tournée nei teatri più prestigiosi e nei “pub” più nascosti, concerti con l’amico che non c’è più Lucio Dalla e tanti, tantissimi da solo. E’ la sua vita, irriducibile passione per un mestiere che si fa esperienza quotidiana e non passerella occasionale, quella di cantare le sue canzoni ovunque ci sia “una città per cantare”. E allora il nuovo disco celebra un po’ tutto questo: le parole “sulla strada” fanno capolino in contesti diversi in ogni canzone. Sulla strada, quella di Kerouac, libro che De Gregori ammette di aver letto solo adesso e di aver evitato in gioventù, a differenza di tutti quelli della sua generazione che su quel libro hanno costruito una utopia poi destinata a rivelarsi deludente. Per De Gregori nessuna utopia, ma vita, tale da portarlo a 60 anni compiuti e quattro decenni di carriera a uno dei suoi dischi più innovativi e coraggiosi.  “Non trovo riferimenti a Bob Dylan in questo disco” gli faccio notare, cosa strana per un artista che da 40 anni infarcisce i suoi lavori di citazioni e tributi al suo maestro. “Bravissimo, è verissimo” mi risponde. “E’ una novità assoluta”. Sarà, ma un riferimento il sottoscritto lo ha trovato lo stesso. Se Bob Dylan da anni si ispira alle musiche pre rock’n’roll, quel folk e quel blues degli anni 30 e 40 che costituiscono l’ossatura della canzone rock, De Gregori per questo nuovo disco sembra ispirarsi a quella canzone italiana precedente l’ultima guerra, quella anch’essa anni trenta e quaranta. Non è la prima volta che lo fa, questo filo è sempre presente nel suo lavoro: una volta mi spiegò come le canzoni che cantava sua madre al pianoforte furono la sua prima educazione musicale.
Nel nuovo disco, con eccezione del brano che lo titola, una tipica ballata rock delle sue, l’atmosfera apre a un mondo antico e dimenticato, tra bui appartamenti di una grande città ai tempi dell’ultima guerra o i saloni illuminati di una festa della belle epoque, come titola il brano omonimo. C’è l’eco dei programmi radio quando la radio si chiamava ancora Eiar, Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche e non Rai, l’odore di vecchi 78 giri che probabilmente giravano per casa De Gregori. Anche il brano La guerra, nonostante l’andamento rock, si apre a un ritornello corale che sembra uscire da un canto alpino o partigiano, comunque popolare, antichissimo. 



E De Gregori mai o raramente è stato così diretto e auto biografico nelle sue canzoni, quasi a sentire il bisogno di non nascondersi dietro più a nulla. E’ evidente nella pianistica e intensa Guarda che non sono io, canzone imponente, onestissima il cui arrangiamento d’archi è curato da Nicola Piovani: “non sono io quello che ti perdona e ti capisce che ti non ti lascia sola e non ti tradisce, qualcuno mi vede e mi chiama per nome, si ferma e mi ringrazia, vuole sapere qualcosa di una vecchia canzone e io gli dico scusami non so di cosa stai parlando  se credi di conoscermi non è un  problema mio”. 
Succede di nuovo in Omero al Cantagiro con quel pianoforte anni 30, il mandolino mediterraneo, con il ritornello che sa di quelle voci al megafono che si usavano un tempo: “Perché ho fatto più di cento chilometri per essere qui A farti firmare i miei dischi e ringraziarti  che esisti Fra lacrime e fischi”. Sa di swing e ricorda anche certe cose di Domenico Modugno, il più grande interprete di canzoni che l’Italia abbia mai avuto, Belle Epoque, mentre Passo d’uomo è ancora una ballata pianistica impreziosita dagli archi arrangiati da Guido Guglielminettii (anche produttore dell’intero disco) con un crescendo vocale ed emozionale come solo De Gregori sa fare: “povero cuore, con la mano sul cuore”. Il valzer delicato di Showtime ricorda altri maestri del passato, certe incisioni di Vittorio De Sica ad esempio. E se Ragazza del 95 (con il controcanto di Malika Ayane) con quel ritmo latino e la tromba in primo piano potrebbe essere la nuova Titanic, il disco si conclude in modo sommesso, ma raramente così gioioso per questo cantautore. Un incontro sulla rotonda di Portofino? E’ il pezzo che si intitola Falso movimento: “Come sono contento, fuori si sente il mare anche se è tutto scuro e non si può vedere Tu mi guardi negli occhi,  io non so dove  guardarti stasera sono un libro aperto, mi puoi leggere fino a tardi”. Mai come in questo disco De Gregori era stato un libro più aperto. E noi lo leggeremo fino a tardi, su questo non c’è dubbio.

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