Ci sono tre aspetti interessanti nella “Lucia di Lammermoor” in scena in questi giorni a Jesi: a) sotto il profilo strettamente produttivo è il frutto della cooperazione tra ben otto teatri (il circuito lombardo, il circuito marchigiano e il teatro Alighieri di Ravenna) che “girerà” sino al 20 gennaio, ammortizzando i costi di produzione; b) è un nuovo allestimento che si basa, però, sulle scene di Josef Svoboda e la regia di Henning Brockhaus nata nel 1993 per lo Sferisterio, vista tre volte a Macerata e portata in altri teatri , ma “ripensata” da Brockhaus per questa occasione; c) è una rara occasione di ascoltare una versione “quasi” integrale del lavoro di Gaetano Donizetti che amatissimo dal grande pubblico è stata più volte rimaneggiata da impresari, direttori d’orchestra e cantanti. E’ una delle opere più rappresentate non solo dai principali teatri lirici ma anche da compagnie a volte improvvisate.
Tratta da uno dei romanzi storico-romantici dello scozzese Walter Scott, di cui La Pléiade ha appena pubblicato la collezione integrale (anche se in Italia è noto solo per le edizioni hollywoodiane e televisive di “Ivanohe”, messa in musica, tra l’altro, in un ‘centone’ di Gioacchino Rossini rappresentato alcuni anni fa al festival di Martina Franca), “Lucia” rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito (al pari di quanto avviene nel capolavoro rossiniano ispirato ad un altro lavoro di Scott, “La donna del lago”). Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo.
Portare “Lucia” sui palcoscenici “minori” rappresenta una sfida per una ragione specifica connessa alla “tradizione” italiana. Nelle edizioni in circolazione dalla seconda metà dell’Ottocento vengono operati tagli copiosi (quasi un terzo della partitura), principalmente nei ruoli maschili; la vocalità della protagonista veniva portata a soprano drammatico. I tagli hanno l’effetto di imperniare tutta l’opera su Lucia, dimenticando che si svolgono due azioni parallele: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le fanciulle, pure le sorelle, sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. La “Lucia” tagliata della “tradizione” è un romanzetto romantico, invece del doppio dramma parallelo.
Circa tre lustri fa, Zubin Metha e Graham Vick portarono una “Lucia” quasi integrale al Maggio Musicale Fiorentino e al Grand Théatre di Ginevra. Operazione coraggiosa che a Firenze, però, non venne approvata dal pubblico. Lo spettacolo è poi approdato al Costanzi di Roma e in altri teatri della Penisola. L’edizione Svoboda-Brockaus è contemporanea a quella di Mehta-Vick. Ci sono, però, differenze sostanziali sia nella regia sia nel trattamento musicale. Vick utilizzava una scena unica (un grigio soffocante interrotto da cespugli rosa, ed una grande luna piena) ed una chiara collocazione temporale, mentre Svoboda-Brockhaus situano l’azione in un contesto a-temporale dove è sempre presente la speranza (il contrasto tra la parete nera e i campi di margherite): un mondo di anime ‘deformate’ in cui i giochi di potere portano tutti, non solo la protagonista, alla follia. Inoltre, la filologia musicale ha fatto strada: il maestro concertatore Matteo Beltrami utilizza, ad esempio, l’arpa non il flauto nella ‘scena della follia’. Lo spettacolo termina alla mezzanotte e mezza (con inizio alle 21e due brevi intervalli), circa venti minuti di più delle versioni correnti.
Firenze, Ginevra e Roma potevano contare su ‘grandi nomi’ belcantisci. Gli otto teatri si affidano a giovani. Gianluca Terranova (il più noto anche a ragione del film televisivo su Caruso da lui interpretato di recente) è un Edgardo generoso la cui voce riempie i teatri relativamente piccoli della tournée: maschio e prestante l’acuto, attento il fraseggio, buono il legato. Julian Kim è un Enrico di valore sotto il profilo interpretativo sia vocale. Giovanni Battista Parodi da sostanza a Raimondo, personaggio spesso sottovalutato, mentre Alessandro Scotto di Luzio induce nel falsetto e lascia a desiderare.
E ‘Lucia’? La ventiduenne giorgiana Sofia Mchedlishvli è bella, recita bene ed è dolcissima. Impersona a pennello la sventurata protagonista. Affronta, però, il ruolo troppo presto: voce piccola, timbro un po’ metallico (tipico dei soprani dell’Europa orientale), anche se ha un’ottima coloratura e conquista il pubblico vincendo su tutti all’applausometro.