“Poi udii delle voci ed ecco entrare gli Stones con Jimi Hendrix. Con Mick Taylor andai a sedermi su una panca vicino a Hendrix che pareva un po’ depresso ma nell’insieme affabile. Mick Taylor gli passò la chitarra e gli chiese di suonare qualcosa (…) Nel corridoio vidi un altro dei fantasmi dell’anno successivo, Janis Joplin, che puntava verso il camerino degli Stones. La evitai, dato che avevo sentito dire che una cosa che avevo scritto su di lei l’aveva mandata in bestia”.
Ecco l’atmosfera in cui si svolgono “Le vere avventure dei Rolling Stones”, tra personaggi leggendari molti dei quali scomparsi e bruciati pochi mesi dopo le storie che vengono narrate. A narrarle, nel libro omonimo, lo scrittore e giornalista americano Stanley Booth. Più che avventure, queste sembrano “cronache marziane”, da un altro mondo e da un’altra dimensione, oggi inimmaginabili. Basti dire che lo stesso Booth dica che Jagger e Richards non siedono più nello stesso camerino da quasi trent’anni. Per scriverle, l’autore ci ha messo la bellezza di quindici anni, e non stupisce. Queste avventure si svolgono nel corso di un tour, quello dell’autunno 1969, e Booth le ha pubblicate solo nel 1984. Rivedute e ampliate, escono finalmente anche in Italia nel cinquantesimo anniversario della nascita degli Stones, per i tipi di Feltrinelli. Il motivo per cui Stanley Booth, allora giornalista “embedded” nel tour degli Stones, ci ha messo tanto a finire questo libro è facile da capire, se si sa di cosa si sta parlando.
Quel tour, che segnava il ritorno degli Stones ai concerti dopo circa tre anni di assenza, si celebrò all’indomani della esperienza di Woodstock, quando una generazione sembrava che fosse davvero in grado di cambiare il mondo. Su quell’onda emotiva Mick Jagger e soci attraversarono l’America in piena esplosione rivoluzionaria, cavalcando quell’onda, non come le star che poi diventarono, ma come de rivoluzionari loro stessi: non a caso ognuno di quei concerti si chiudeva con Street Fighting Man, il combattente di strada (che cosa altro può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock’n’roll band? si chiedeva Jagger).
Quello straordinario momento storico sarebbe svanito in un istante, e proprio durante un concerto degli Stones, quel concerto ad Altamont dove uno spettatore veniva assassinato e che buttava nella spazzatura tutti i sogni di cambiamento di quella generazione. Crollava una utopia, nel sangue. L’uomo solo sul palco, Mick Jagger, davanti centinaia di migliaia di spettatori confusi e ammutoliti, si sforza inutilmente di reclamare la fratellanza universale mentre davanti a lui la gente si accoltella a sangue: lui è solo il cantante di una rock’n’roll band.



“Tutti” scrive Booth “Stones, fan, scrocconi, parassiti, osservatori, traboccavamo ottimismo in quell’autunno del 1969, un ottimismo che gli anni a venire avrebbero dimostrato totalmente ingiustificato. Tanto nella vita privata quanto in quella pubblica fummo delusi, da noi stessi e dagli altri”.



Così questa straordinaria documentazione che si svolge in dozzine di camerini, di camere d’albergo, studi di incisioni, sale da concerto, diventa non solo il diario di un gruppo rock, ma il diario di una generazione. Stanley Booth lo scrive con il sangue, e con la classe di un grande scrittore, raccontando se stesso e gli altri. I capitoli  si alternano fra il diario di quel tour, con momenti anche divertenti, ad esempio quando un Mick Jagger appena ventiseienne confessa di sentirsi già troppo vecchio per la musica rock: “Siamo così vecchi, sono otto anni che ci diamo dentro non possiamo tirare avanti a questo modo per altri otto. Cioè se ci riesci fallo pure ma io non ce la faccio, insomma siamo dei vecchietti. Bill ha 33 anni…”. Che direbbe oggi il Jagger quasi settantenne che si appresta a tornare di nuovo sulle scene con la sua band?



Ci sono poi momenti di grande interesse storico, come la descrizione di quando gli Stones si recano negli storici studi di registrazione Muscle Shoals nell’Alabama, dove possiamo assistere alla nascita in presa diretta di brani come Brown Sugar o Wild Horses. E c’è la storia di Brian Jones che attraversa tutto il libro, morto proprio nel luglio 1969. Il libro infatti si apre con Stanley Booth che va a trovare i genitori di Jones all’indomani della morte del chitarrista e finisce con Booth che è ancora lì a parlare con loro: il piccolo folletto biondo che aveva inventato gli Stones è raccontato nella sua tragedia. Booth è presente anche ai processi che il musicista subirà e li descrive da perfetto giornalista, dando una documentazione storica rigorosa che fa piazza pulita di tante dicerie banali (quelle del tipo sesso droga per intendersi).

Un libro epico, tragico e appassionante, quando la musica sembrava poter cambiare il mondo: “Se si fa quel che si fa per Dio o per il Bene, disse Mick Jagger e sembrava  stanco, pallido, allora non mi è ancora riuscito di trovare qualcuno che lo faccia, di sicuro non in politica, meglio di quel che faccio io per come lo faccio”. Aveva ragione.