Il ministero dei beni culturali ha fatto sapere che quest’anno il rinomato festival Umbria Jazz Winter non avrà diritto ai fondi statali che da undici anni riceveva regolarmente. In un periodo di tagli dovuti alla profonda crisi che viviamo, purtroppo un taglio alla cultura ci potrebbe anche stare. Quello che  ha destato sorpresa sono invece le motivazioni con cui sono stati decisi questi tagli: “Mancanza di criteri di qualità perché il jazz non è espressione diretta della cultura italiana”. Sulla Rete divampa il dibattito, a cui ha preso parte anche il presidente onorario di Umbria Jazz, Renzo Arbore, che ha consigliato al ministro di scegliersi dei collaboratori più adeguati. Ilsussidiario.net ha chiesto a Mark Baldwin Harris, musicista di fama internazionale (produttore e collaboratore di Fabrizio De André, fra i tanti, e poi anche di Enzo Jannacci, Eros Ramazzotti, Giorgio Gaber, Antonella Ruggiero, Renato Zero, Laura Pausini), nato negli Stati Uniti ma vivente in Italia da decenni, un commento sulla vicenda. Che lui ha fatto con stile ironico e appassionato, da autentico… musicista jazz.



Il jazz non è espressione diretta della “cultura italiana”? …Boh! Sì, posso capire il ragionamento. Forse, strettamente parlando, il jazz è meno italiano di… che so… la tarantella? Se ne può discutere, ma no, non è un buon paragone. Intanto il jazz si suona davvero in tutta Italia, la tarantella assai meno (e certamente non è mai stato il ballo nazionale). Ma ragioniamoci su un po’ meglio. Come tanti lettori già sapranno, il primo disco riconosciuto di jazz (datato 1917) venne realizzato da musicisti italo-americani. Forse alcuni sapranno anche che Louis Armstrong era un fan sfegatato di Enrico Caruso, dal quale prendeva ispirazione per il fraseggio. E scommetto che non sono l’unico ad aver letto, nell’autorevolissimo “Oxford Companion to Jazz”, che Jelly Roll Morton arrivò a suggerire che gli ensemble vocali dell’opera lirica italiana ottocentesca fossero i veri precursori dello stile dell’improvvisazione collettiva nel jazz di New Orleans.



Un elenco di rinomati jazzisti dalle origini italiane (quindi, presumibilmente, di cultura italiana), da Nick LaRocca (quello del succitato primo disco) a Louis Prima, da Lennie Tristano a Chick Corea, sarebbe davvero troppo lungo. Basti al riguardo l’affermazione del grande studioso tedesco di jazz Joachim Ernst-Berendt: “Nessun paese europeo ha prodotto un tale numero significativo di musicisti jazz americani quanto l’Italia”.

Naturalmente non voglio sostenere che gli italiani abbiano inventato il jazz, sarebbe una sciocchezza. Ma, senza alcun dubbio, i musicisti dello stivale, oltre ad essere ancora e da sempre attivissimi in patria e altrove nello sviluppo di questo genere musicale, hanno dato un contributo decisivo e “diretto” alla sua nascita.



Contributo assai più decisivo, ad esempio, di quello che l’Italia ha dato alla nascita del calcio moderno, che rimane espressione diretta della cultura inglese dell’ottocento. Da questo punto di vista storico, non sarebbe quindi più “patriottico”, anziché tagliare quei modesti contributi al povero jazz, “uscire dal campo” per operare finalmente una liberale “Separazione fra Stato e Calcio”?

Sorry, era soltanto una provocazione passeggera. La risposta, ovviamente, non potrebbe essere che un secco “no”, visto che il peso economico del mondo del calcio è centomila volte quello del jazz, e la “cultura italiana” contemporanea, più che dal sax, pare incantata dal “Sachs” (brillante interprete delle “Variazioni Goldman”)…

“Il jazz non è espressione diretta della cultura italiana”: rileggendo l’affermazione in quest’ottica, alla fine devo dire che non fa una grinza. Di questa “cultura italiana” contemporanea – anzi, speriamo temporanea – il jazz non è affatto espressione, né diretta, né indiretta. Ora mi spiego la ragione dei tagli.