Riassunto della puntata precedente. Parlare bene o male di un disco di Mina è difficile o, più semplicemente, superfluo. Per come ha deciso di concepirsi e mostrarsi da un certo momento in poi l’icona vocale italiana per eccellenza, entrambe le opzioni sono perfettamente valide perché – tolte le felici parentesi di Dalla terra e Bau – sulla Mina post anni ‘90 tutte le prese di posizione possono essere buone, dalla eterna riverenza di chi vi vede un’autorevolezza talmente acquisita da giustificare l’equazione tigre di Cremona = rivelazione perenne di un un mondo artistico puro, incontaminato e intoccabile, alla non meno comprensibile sconfessione di un’artista sempre più algida e chiusa nel proprio mondo musicale dorato di lustrini, paillettes e abito da cocktail.
E’ cosa vera, sacrosanta e ricorrente che quando un’artista non provoca, non spiazza e non sposta più da tempo le molecole dell’umano, allora è arrivato il momento di parlarne, di costruirne il logos, di alimentare un discorso sulla sua figura, di istituirne il rito. Dall’arte che vive, abita, veste l’umano si passa allora al più facile ed immediatamente allettante culto della personalità che nulla aggiunge di nuovo e di bello alla parabola di una cantante straordinaria e di chi l’ascolta da sempre, se non una rassicurazione reciproca e un frasario ineccepibile e preparatissimo per la difesa in via preventiva di ogni nuovo prodotto.
“12 (American Song Book)” è l’inevitabile risultante di questo stato di cose, una creatura un po’innocua e molto salottiera, spesso e volentieri autoreferenziale. La possibilità di scegliere la copertina favorita tra dodici raffiguranti altrettante stilizzazioni di una Mina ritratta in epoche differenti forse costituisce il particolare più fresco e stimolante all’interno di un lavoro che alterna adulazioni da torch singer, tepori jazz e dosate astuzie da consumata affabulatrice.
E’ allora del tutto lineare che un disco che raduna – in una sequenza cronologica che va dai ’30 ai ’70 – brani di intenti ed estrazioni differenti quali Have Yourself a Merry Little Christmas, I’ll be seeing You, I’ve Got You Under my Skin, Love me Tender e persino una Fire and Rain di James Taylor, arrivi a suonare perlopiù identico in ogni sua parte come in uno studiato processo di compenetrazione pronto a servire il relax davanti al focolare. Un suono che collega in diretta permanente il Nat King Cole di Unforgettable all’accogliente garbo domestico di Dean Martin e Bing Crosby, che rivisita l’immaginario dello standard catapultato nell’oasi confortevole dei carols natalizi.
Altrettanto prevedibilmente un disco che può contare – oltre che su svariate ospitate – sui soliti contributi lussuosi d’ordinanza grazie a una band di supporto che annovera in forma di jazz trio nomi quali Danilo Rea (piano), Massimo Moriconi (contrabbasso) e Alfredo Golino (batteria), si rivela come un tiepido, temperato e asettico lavoro d’ensemble dove sembra di percepire nulla più che una raffinatezza aritmetica e studiata senza lo straccio dei mal di pancia, di testa, delle gioie inquiete e degli affetti lacerati della Mina più invischiata e tormentata persino nelle rese di slow storici quali Alfie di un Bacharach o di una più recente Rose su rose.
Ma quasi come per un piccolo incanto quella Mina Anna Mazzini a tratti si ripresenta, sembra guardarti, esplorarti e chiedere il conto. Così è nell’interazione voce/archi con tanto di squadrature malinconiche ed epocali della weilliana “September Song” o nella finale “Anytime, Anywhere”, e ancora in una sbarazzina e quasi stuzzicante “Banana Split for My Baby” o in una “Over the Rainbow” che apre qualche varco danzante nel canto e in un certo input strumentale conclusivo vagamente fuori dal consolidato copione del sottofondo ordinato e asettico.
Io credo che la Mina attuale non sia tutta in questo essere pigra signora che a scadenza fissa parla ai sudditi dal balcone che si staglia all’orizzonte di un mondo dorato al di là dei laghi lombardi, forse questo periodo – decisivo per tanta umanità italiana e non – sarà altrettanto decisivo per lei.
E allora magari non tra uno, ma tra due anni solari tornerà a condividere con tutti noi ansie, timori, la polvere di delusioni e illusioni come motori di un cuore che riscopre la luce non rassegnandosi al buio ricorrente e rifuggendo la facilità dei fuochi fatui di canzoni ammodo sprofondate su un sofà. Cara grande Mina noi siamo e saremo qui ad aspettarti.