David Wark Brubeck, ‘Dave’ per tutto il mondo, ha costruito una vita e una carriera da musicista sempre spiazzando le aspettative e i luoghi comuni che solitamente associamo ai jazzisti, fino a quando è morto, lo scorso 5 dicembre, il giorno prima di compiere 92 anni.

L’immagine romantica di genio e sregolatezza appiccicata ai musicisti, e soprattutto diremmo ai jazzisti, non si confà nemmeno per scherzo a questo grande artista, figlio di un allevatore di bestiame e di una pianista concertista, studente di musica col grande compositore Darius Milhaud, come lui maestro nel maneggiare poliritmi e politonalità, sposato alla stessa donna, Iola Whitlock, per settant’anni – dopo un corteggiamento di tre ore (!) ad un ballo studentesco nel 1942 – con la quale ha generato sette figli verso i quali è stato padre affettuoso e partecipativo, e inoltre insegnante di musica, capogruppo di un complesso rimasto unito per più decenni con vari cambiamenti d’organico, divulgatore di ritmi estranei al comune sentire, e compositore in grado di spaziare dalla classica forma-canzone americana – la sua ‘In Your Own Sweet Way’ divenne uno standard registrato da infiniti musicisti, Miles Davis e Bill Evans in testa-  alle forme più complesse come il poema sinfonico, l’oratorio e la Messa.



C’è però un dettaglio che da sempre ha pesato sulla valutazione di Brubeck, ossia che lui è stato un jazzista popolare, che ha venduto milioni di dischi riuscendo persino ad intrufolarsi nei juxe-box dell’era rock’n’roll col suo Take Fiv e– un pezzo in tempo cinque quarti, nientemeno! – e che ha saputo far arrivare il jazz a milioni di persone. Sempre basandosi sull’immagine romantica di cui sopra, un jazzista non deve diventare popolare, altrimenti ha venduto la propria anima: poco importa che Louis Armstrong, Duke Ellington, Miles Davis e altri abbiano avuto successo senza compromettere più di tanto la loro arte, questo non deve accadere, punto e basta.



Dave Brubeck è stato la smentita più clamorosa a quanto sopra detto, sebbene lui stesso non abbia mai fatto mistero delle difficoltà incontrate nella sua carriera, a partire da un curioso episodio della sua vita privata: quando era sposato da poco, si vide negare l’installazione di un telefono perché sulla domanda alla voce ‘professione’ aveva scritto ‘musicista di jazz’, e la compagnia telefonica non si fidava di un mestiere così incerto; solo dopo che ebbe ottenuto un posto per insegnare musica, e quindi poté scrivere ‘insegnante’ come professione, si vide allacciare il telefono. Anche da musicista non gli mancarono le delusioni, come quando suonò all’Oberlin College- in un concerto registrato dal vivo- e scoprì che i docenti avevano chiuso a chiave il pianoforte gran coda dell’auditorium per non farlo ‘contaminare’ dalle mani di un jazzista, il quale dovette accontentarsi di un quarto di coda ‘logorato dall’uso e appena passabile’, ricordava Dave.



L’attività di Brubeck, va detto subito, si inserisce in un momento storico assai particolare per gli Stati Uniti, appena usciti da una guerra che aveva cambiato nettamente un modo di vivere, decretando ad esempio in musica la progressiva scomparsa delle orchestre swing come occasione per ballare e portando in primo piano generi come il country e il rhythm’n’blues, espressioni delle comunità rurali bianche e nere trasferitesi nelle città per lavorare nelle industrie belliche. Brubeck aveva partecipato alla guerra sul fronte europeo, ma già si distingueva per un approccio mentale assai personale, se pensiamo che nello zaino portava una copia del saggio di Oswald Spengler Il Tramonto dell’Occidente, non certo la lettura tipica del soldato, e quando inizierà a far musica dopo il congedo assumerà il ruolo del mediatore culturale, nel senso del divulgatore che passa molto tempo a suonare per i musicisti dei college, spesso poco esperti di jazz, e del musicista in grado di assimilare i materiali più disparati per trascenderli in sintesi personale. Citiamo ad esempio History of a Boy Scout (We Crossed The Rhine), scritta in Germania ispirandosi al ritmo dei camion che passavano su un ponte, oppure The Golden Horn, il cui tema si basa sul ritmo dell’espressione turca equivalente a ‘Grazie molte’, o ancora, su un piano più intimo, il tardo Benjamin dedicato al primo nipotino- figlio di Chris- la cui figura ritmica è la trasposizione del nome completo, ‘Benjamin Christopher David Brubeck’.

La produzione brubeckiana è ovviamente sterminata, a cominciare dall’ottetto del 1946- formato da ex-allievi di Milhaud- che sintetizza le ricerche avanzate della California in perfetto parallelo con quanto a New York faceva Miles Davis con la celebre tuba band (la quale, ovviamente, era meglio conosciuta in virtù della presenza di un solista carismatico e già notissimo), per seguire col trio- le cui prime incisioni lanciarono una storica etichetta come la Fantasy- ed arrivare, saltando qualche passaggio, al celeberrimo quartetto con Paul Desmond (sax alto), Eugene Wright (basso) e Joe Morello (batteria).
Questa è la formazione che registrerà uno dei capisaldi del jazz moderno, Time Out, nel quale si trovavano il già citato Take Five ma anche Blue Rondò A La Turk, basato su un ritmo di origine turca: a dirla tutta, il disco infrangeva molti tabù dell’epoca, in quanto non aveva la foto del gruppo in copertina (al suo posto un dipinto di Mirò), non aveva brani ballabili e non aveva un singolo di successo, tanto che il presidente della Columbia in persona, Goddard Lieberson, dovette operarsi affinché Take Five uscisse come singolo.
Come spesso però accade, un prodotto tanto ‘altro e diverso’ si fece strada nella psicologia collettiva, tanto che in Francia Richard Anthony incise una versione diTake Five dal titolo Ne Boude Pas, mentre Claude Nougaro riprese Three To Get Ready dallo stesso disco, intitolandola Jazz Et Java; inoltre tutto il rock progressivo inglese degli anni Settanta e molto folk-rock contemporaneo attinsero a questo disco, tanto che nel primo e unico album dei Blind Faith è inclusa Do What You Like di Ginger Baker, appunto in cinque quarti, sebbene Baker alla batteria non riesca a mantenere quella scansione fino alla fine nel suo assolo, e nel terzo album dei Fairport Convention, Unhalfbricking, è inclusa la composizione di Sandy Denny Autopsy, aperta da una sezione, guarda caso, in cinque quarti (anche i Nice di Keith Emerson incisero Blue Rondò A La Turk, ma trasformandola in un regolare terzinato, come faranno anche in Italia Le Orme).

Non meno singolare l’influsso che questo ed altri album del quartetto ebbero sul jazz d’avanguardia di Chicago: il multi-strumentista Anthony Braxton non fece mai mistero della sua predilezione per il quartetto di Brubeck, tanto che quando nell’ottobre 1974 ebbe occasione di registrare con Brubeck non solo accettò subito ma – come ci rivela Michael Cuscuna – durante una riunione preliminare un mese prima ‘Anthony cominciò a tirar fuori album di Brubeck e a suonarli, esaltandosi per la musica e i risultati conseguiti dall’uomo. Si mise a canticchiare assolo di Bruneck e Desmond nota per nota’, una bella rivincita per un gruppo accusato di sfruttare la musica dei neri. Quest’ultima assurdità ignora sia la stima che il quartetto godeva presso tantissimi musicisti neri, da Louis Armstrong a Cecil Taylor, sia l’impegno di Brubeck contro le discriminazioni razziali, tanto che nel 1960 cancellò un tour del sud degli Stati Uniti quando gli chiesero di sostituire il suo bassista- Wright era un nero- con un bianco, gesto che gli costò 40.000 dollari (di allora). L’anno dopo, tanto per non smentirsi, Brubeck arrivò a progettare un musical, The Real Ambassador, con protagonista Armstrong, nel quale la discriminazione era allegramente presa a gabbo: non sorprende che lo spettacolo ebbe una sola esecuzione, al Festival di Monterey, ma non arrivò mai a Broadway perché i finanziatori si spaventarono (per fortuna fu registrato, ed è ancora oggi godibilissimo).

L’ultimo aspetto della creatività brubeckiana su cui vorremmo diffonderci è l’attività di compositore, condizionata all’inizio dal fatto che Brubeck era nato dislessico, fino ai 12 anni non sapeva leggere la musica – era aiutato dal suo incredibile orecchio assoluto – e dovette faticare molto per apprendere il sistema di notazione su carta: fra tutti i lavori composti dopo il 1968, anno in cui il quartetto concluse l’attività, citiamo Upon This Rock, un corale e fuga scritto per la visita del Beato Papa Giovanni Paolo II a San Francisco nel 1987, ed eseguito davanti a 70.000 persone nel Candlestick Park della città californiana, curiosamente lo stesso posto dove, il 28 agosto 1966, i Beatles tennero il loro ultimo concerto davanti a un pubblico pagante. La composizione in onore del Papa segnava il termine di un cammino spirituale che condusse Brubeck a convertirsi al cattolicesimo dopo un episodio singolare: quando scrisse la sua ‘Messa’, un sacerdote gli fece notare che ci sarebbe stato bene anche un Padre Nostro, la cui musica – dice Dave – gli arrivò una notte in una visione, tanto che lui dovette solo annotarla. Quando si dice che il jazz è anche una musica dalla forte connotazione spirituale, bisogna aggiungere che lo è grazie alla attività di persone come David Wark Brubeck, grazie alle quali il nostro mondo è certamente migliore.