Ogni anno, quando stava per arrivare Natale, si metteva a disegnare personalmente delle cartoline di auguri per i suoi amici e familiari. Disegnare gli piaceva, come tantissime altre cose, segno di una personalità curiosa e inesauribile per qualunque forma di espressione. Lui, che era stata una star mondiale, ad esempio negli ultimi tempi si divertiva ad andare ai rave o ai festival con una grossa radio: si sedeva accanto a un fuoco con le persone qualunque, a sentire musica, discutere di ogni argomento, aperto a tutto e a tutti. Per quel Natale di dieci anni fa, si era messo a disegnare delle cartoline che raffiguravano delle piccole barche illuminate da una luce che veleggiavano verso una terra sconosciuta. In una di queste barchette c’era raffigurato anche lui, sorridente. Andava verso quella terra sconosciuta ai più. Probabilmente aveva finalmente chiaro il senso del suo destino. Per un uomo che aveva detto che “the future is unwritten”, il futuro non è scritto, qualcosa di più di una coincidenza.
“Che cosa è un appassionato di rock’n’roll?” aveva detto una volta Joe Strummer. “Non si tratta della batteria, delle droghe, di ricoveri in ospedale. C’è molto di più di questo. A tutti piace la bella vita, un po’ di soldi, un po’ di droga ad altri piace il sesso, il glamour o il successo. Ma un appassionato di rock’n’roll è diverso. Perché? Perché un vero appassionato di rock’n’roll vuole tutto”. Ecco, per Joe Strummer la vita era un desiderio incolmabile di andare a fondo di ogni suo aspetto, senza contentarsi mai.
Ebbi modo di incontrarlo una volta, per intervistarlo. Quando arrivai al posto dell’appuntamento era alle prese con una troupe televisiva. Li stava tirando scemi: chiedeva di spostare la telecamera, muoveva seggiole e tavolini, a riprese già cominciate diceva che era meglio un’altra angolatura. Era frenetico e spumeggiante come era sempre stato, anche adesso che si avvicinava ai 50 e in molti si erano dimenticati di lui. In un documentario girato negli Stati Uniti in quel periodo, lo si vede su un marciapiede a distribuire volantini del suo concerto serale alla gente che passa. Nessuno lo riconosce e gli chiedono chi sia quello che suonerà quella sera. Lui, che era stato il leader carismatico di quella che la stampa inglese aveva giustamente definito “the only band that matters”, l’unica band che ha significato, importanza. Joe Strummer, l’uomo che incarnò e raccontò una generazione intera di giovani a cui non era rimasto niente in cui credere e a cui lui diede di nuovo una ragione per credere.
A un giornalista che lo intervistava, durante i giorni di gloria dei Clash, aveva detto: le riserve di petrolio dureranno ancora 10mila giorni. Il giornalista, stupito, gli chiese se intendeva che ci rimanevano solo 10mila giorni per trovare una fonte di energia alternativa. No, rispose Strummer, ci restano ancora 10mila giorni per fare rock’n’roll.
Al di là del fatto che i Clash avessero riportato in primo piano l’impegno politico nell’Inghilterra devastata dalla crisi economica della seconda metà degli anni 70, ridando entusiasmo a una generazione a cui erano rimasti solo i cocci dei loro fratelli maggiori, quegli hippie che avevano preteso cambiare il mondo con pace & amore e invece erano finiti morti per overdose o a fare carriera alla televisione, Joe Strummer era un autentico rocker. Difficile immaginare una serie altrettanto portentosa di grandi canzoni rock come quelle che lui, da solo o insieme all’amico Mick Jones, aveva scritto. I Clash portarono fuori i punk dal nichilismo e dall’anarchia senza scopo dei Sex Pistols e diedero loro qualcosa in cui credere: per noi che avevamo 15, 16 anni nel 1977, i Clash furono una mappa che ci permise di ridisegnare e costruire un futuro. A colpi di rock’n’roll, perché i Clash salvarono questa musica come solo chi è ben consapevole di avere una missione può fare. Spingendosi oltre, sperimentando senza sosta, scoprendo per primi l’hip hop che avanzava nei ghetti di New York: d’altro canto, un vero appassionato di rock’n’roll vuole tutto. E il futuro non è scritto.
Nella sala dell’hotel dove mi trovavo a intervistarlo, Joe Strummer si preparava una sigaretta via e l’altra e a un certo punto si sfilò gli stivali da motociclista con un moto di soddisfazione. La ragazzina giornalista che era con me osservò: finalmente ha fatto qualcosa di punk. Che sciocchezza. Joe Strummer non aveva bisogno di fare qualcosa di punk, lui era di più, molto di più di una moda. “Sono il padre protettore di tutti i giovani gruppi punk” mi disse quel giorno “che altro di eccitante ci sarebbe in giro se non ci fossero più gruppi punk?”. Ma allo stesso tempo sapeva ridere di certo estremismo del suo passato, ad esempio di quando cantava “No Elvis, no Beatles o Rolling Stones nel 1977” o anche “La stupida beatlemania è finalmente finita nel fango”: “Adoro i Beatles, parlare male di loro sarebbe come parlare male del Papa” mi disse. Non era però riuscito ancora a venire a conti con il suo passato: “Il passato mi fa paura. È troppo traumatico riascoltare i Clash dal vivo. Non voglio avere una specie di flashback da Vietnam… Credo sia una cosa pericolosa. Ma un giorno, spero, ci riuscirò” mi spiegò a proposito di un nuovo disco del suo ex gruppo che era uscito proprio in quei giorni contenente alcune delle migliori esibizioni live dei Clash.
Un anno dopo circa averlo incontrato, venni a scoprire che nella stessa sera a Milano dovevano esibirsi David Bowie in una discoteca e Joe Strummer in un club. Non avevo mai visto i Clash dal vivo, non avevo mai visto Joe Strummer in concerto. Se è per questo non avevo neanche mai visto David Bowie in concerto e per di più come quella sera in un piccolo locale invece che in uno stadio. Be’, pensai, non ci sarà un’altra occasione per vedere una star come Bowie in un contesto così e Joe lo vedrò la prossima volta che capiterà da queste parti. Non ci sarebbe stata un’altra volta.
Poche settimane dopo quel concerto mancato, era quasi Natale, il Natale di dieci anni fa. Era il 22 dicembre. La notizia arrivò fulminea sulla Rete, il luogo dove ormai ogni notizia arriva per prima. Joe Strummer è morto. Aveva appena 50 anni e stava riprendendo a piene mani la sua carriera di musicista dopo troppo anni passati a ritrovare se stesso. Pochi giorni prima si era esibito per la prima volta dopo venti anni esatti con il suo vecchio compagno nei Clash, Mick Jones. Un debito era stato saldato. I Clash, a cui per una reunion venivano offerti da anni milioni di dollari, non avevano mai accettato di rimettersi insieme per uno di quei tour da nostalgia. In questo, erano rimasti fedeli fino in fondo alla loro etica punk: onestà verso se stessi e il proprio pubblico prima di ogni altra cosa, anche i soldi.
Joe Strummer muore nella cucina di casa sua, tornato da una passeggiata nei campi insieme al suo cane. Lo trovò così la moglie. Era al tavolo. Stava disegnando cartoline da mandare agli amici per Natale. Su una di queste cartoline c’era una barchetta e sopra lui, sorridente, che navigava verso una terra sconosciuta. A noi, ma non a lui. Sapeva che una vita più piena, più bella, lo stava aspettando. Dopo quel mare che tutti dobbiamo attraversare: lui ha fatto il suo ultimo viaggio a Natale, quello di dieci anni fa. E dieci anni dopo ci manca tantissimo: ci mancano la sua curiosità, la sua onestà, la sua fedeltà a una missione come scopo dell’esistenza stessa. Il futuro per una volta sembra sia stato scritto in anticipo: “Coi Clash è stato come scendere agli inferi e ritornare. Non puoi immaginare cosa abbiamo passato per fare i dischi che abbiamo fatto. Abbiamo dato il 110 per cento, ogni giorno. Ma quando incontri questa gente, persone che ti dicono che hai avuto qualche effetto sulla loro vita, allora senti che valeva assolutamente la pena“. Ci manchi, Joe.